Reintrodotti per ragioni di sicurezza a partire dagli episodi di terrorismo in Francia, in Germania e in altri Paesi europei, i controlli alla frontiera per alcuni di questi stati sembrano divenuti la nuova normalità. Come evidenziato dall’Economist, la motivazione alla base della sospensione di Schengen ha a che fare soprattutto con la propaganda contro l’immigrazione illegale. Fra i 22 membri dell’area, sono 6 i Paesi che si apprestano a rinnovare per altri sei mesi la procedura di controllo dei documenti alla frontiera: Francia, Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia (che fa parte di Schengen pur non aderendo all’Unione Europea).
Negli otto mesi che vanno dal gennaio all’agosto 2018 sono stati 7.467 i migranti individuati fra il confine austriaco e quello tedesco: circa la metà di essi sono stati respinti (3.818), mentre per gli altri è stata avviata la procedura di richiesta d’asilo. L’assenza dei controlli alla frontiera, dunque, renderebbe più difficile intercettare questo flusso – e operare i respingimenti al confine. Sarà per questo che, secondo il ministro dell’Interno, Horst Seehofer, “i requisiti necessari per rimuovere i controlli interni [all’area Schengen] al momento non sono raggiunti”.
A pagare le conseguenze delle code alla frontiera sono soprattutto le società di autotrasporto. L’allungamento dei tempi infatti, si traduce in maggiori costi per il pagamento degli autotrasportatori, i quali percepiscono una paga ad ore. Complessivamente, l’Ue aveva stimato che la fine di Schengen provocherebbe un aumento dei costi di 20 miliardi una tantum più 2 miliardi ogni anno.
Secondo Marie De Somer, analista del think-tank European Policy Centre, la decisione di mantenere i controlli alla frontiera da parte di questi Paesi, nonostante il rientro della crisi dei migranti, ha motivazioni soprattutto politiche. “I leader hanno bisogno di questa situazione per alimentare le proprie retoriche sui migranti”, ha aggiunto all’Economist un portavoce del governo sloveno.