Luigi Zingales su Il Sole 24 ore del 3/07/16 fa una analisi breve, ma chiara e impietosa del principale problema del nostro Paese: l’incapacità delle banche di fungere da propulsore dell’economia e della sua ripresa dovuta al macigno delle sofferenze. Fino a qualche anno fa di questo argomento non si poteva neanche parlare.
Mentre i crediti deteriorati delle banche salivano vertiginosamente, dagli 85 miliardi del 2007 ai 350 e passa miliardi di oggi, con ben 200 miliardi di vere e proprie sofferenze, tutti sostenevano che le banche erano talmente solide da non doversi impensierire.
Quando, nel resto d’Europa i governi intervenivano per salvare le loro banche in difficoltà con costi fiscali che andavano dai 31,1 miliardi dell’Irlanda agli 1,3 miliardi della Lituania, passando per gli 8 miliardi della Germania ed i 4,6 dell’Inghilterra, in Italia i costi fiscali netti erano addirittura negativi per quasi 1 miliardo.
Cioè, invece di intervenire per salvare le banche, si otteneva da loro maggior gettito.
Ma perché bisogna “salvare” le banche? e da che cosa?
Potrà anche essere antipatico a molti, ma senza un sistema bancario efficiente, il sistema economico non solo non cresce, ma degrada.
Storici ed economisti ci spiegano tutti i giorni perché le banche sono diventate inefficienti quando nel ’93 abbiamo sostituito la vecchia legge del ’36, voluta per dare solidità al sistema bancario dopo le tante crisi dei decenni precedenti, proprio per liberarle dai lacci e lacciuoli che le rendevano stabili (o quasi), ma non efficienti.
L’ubriacatura “liberista” del “mercato che si autoregola” ha fatto il resto, finanziarizzando il sistema bancario che ha trascurato la sua funzione principale di raccogliere risparmio per fare credito a chi se lo merita e produce valore.
Per anni ci siamo sentiti ripetere il mantra del cd “originate and distribute”, cioè erogare credito senza troppa cautela, perché il rischio tanto sarebbe stato trasferito al “mercato” impacchettando quei crediti nelle “cartolarizzazioni”.
Con la crisi dei subprime del 2007 è diventato evidente che non poteva funzionare così all’infinito. Dopo un anno salta Lehman Brothers e tutti capiscono di aver esagerato.
Cio’ nonostante nessuno si immaginava che la crisi dell’economia reale, conseguente a quella della finanza, avrebbe provocato la crescita delle sofferenze a causa dell’insolvenza a catena delle imprese.
Nessuno, è forse troppo. I più avveduti lo avevano capito ed hanno agito di conseguenza. In Italia non lo abbiamo ammesso fino a pochi anni fa. Bisogna dare atto al Governo Renzi di aver scoperchiato la pentola che bolliva.
Ora si fa un gran parlare, forse anche “straparlare”, di banche da salvare: poi vediamo da cosa, ma intanto bisogna rimettere le banche in condizione di funzionare cioè di tornare a fare credito credito alle imprese.
Nei modi giusti, nei tempi giusti e nelle forme giuste. “Originate and distribute” è archeologia (speriamo), ma le buone prassi nell’erogazione del credito non sono facili da riconquistare.
Spiegare a migliaia di bancari che vendere carte di credito o servizi non è la stessa cosa che “comprare debito” (cosa altro è erogare credito se non comprare un debito?) non è cosa da poco né si può immaginare che ci voglia poco tempo per riconvertire “venditori” spregiudicati, o quasi, di qualunque cosa possa essere venduta a clienti, dalle Smart ai derivati, dalle obbligazioni subordinate agli smartphone, all’ oculata allocazione dei soldi degli altri (i risparmiatori).
Non sarà neanche facile ripristinare solide strutture di monitoraggio dei rischi a discapito dell’euforia commerciale di chi per oltre due decenni è stato premiato per i ricavi da commissioni piuttosto che per i margini di interesse al netto dal costo del rischio.
Eppure anche tutte queste cose andranno fatte, ed in fretta, se vogliamo che le banche siano motore di sviluppo piuttosto che “il problema” nazionale.
Per farlo forse dovrà anche cedere il passo una generazione di banchieri che non è cresciuta con le vitamine della sana e prudente amministrazione, ma con gli steroidi anabolizzanti delle stock option e delle trimestrali da azionisti avidi di dividendi, comunque realizzati, e amministratori più interessati al potere del capitalismo di relazione piuttosto che allo sviluppo sano della banca.
Ma le banche vanno “salvate” anche se qualche banchiere dice che non ce ne è bisogno e scongiura aumenti di capitale che polverizzerebbero i piani azionari di incentivazione accumulati in questi anni a dispetto delle norme fiscali che li disincentivano (non tutti sanno che i bancari pagano un apposito “contributo di solidarietà” del 10% sui premi incassati in applicazione di una direttiva europea volta a sfavorire la retribuzione variabile legata ai risultati, proprio per contenere l’appetito al rischio).
Da cosa vanno salvate le banche?
Dal macigno di 350 miliardi di crediti deteriorati. Vediamo perché.
Il conto economico delle banche è molto semplice: interessi attivi e ricavi da commissioni tra gli elementi positivi del credito; interessi passivi sui depositi e la raccolta in genere, costo del personale e costi operativi, fra gli elementi negativi del reddito. A questi ultimi si aggiungono gli accantonamenti sui rischi, cioè quelle riserve necessarie per svalutare i crediti in funzione della loro qualità, da usare quando i clienti affidati smettono di pagare.
Sinteticamente il costo del rischio.
Se il margine di interesse (differenza tra interessi attivi e interessi passivi) è più basso della somma tra costo del personale, costi operativi e costo del rischio, la banca incomincia a perdere e intacca il suo patrimonio. La speculazione borsistica di questi ultimi mesi che ha fatto perdere alle banche il 50% e oltre del loro valore distruggendo la ricchezza di migliaia di azionisti, fa proprio questo calcolo.
Con i tassi interbancari negativi, anche i tassi attivi sono ai minimi storici, quindi il margine di interesse si assottiglia. Se il costo del rischio non scende, anche se licenzi personale e risparmi sulle spese correnti, la redditività delle banche va in fumo.
Qualcuno dirà: ma i conti delle banche, salvo quelle pressochè fallite (si dice tecnicamente “risolte”) non sono tutti in perdita!
Attenzione: quando gli analisti fanno i loro conti depurano dal margine di interesse gli interessi addebitati ai clienti più rischiosi che molto probabilmente non verranno effettivamente pagati perché quei clienti andranno in default e forse non pagheranno neanche il capitale che gli è stato prestato.
I “fondamentali” delle banche si calcolano a netto degli interessi attivi a rischio di pagamento.
Poiché ai clienti peggiori si applicano tassi più alti, gran parte dei margini economici contabilizzati dalle banche sono “attesi”, ma non certi.
Se ci limitiamo a calcolare il margine di interesse utilizzando solo i tassi (molto bassi) riservati ai clienti migliori (cioè quelli effettivamente solvibili) allora si noterà che in molti casi il costo del rischio erode gran parte se non del tutto il margine economico.
E’ un attimo e il patrimonio comincia a essere a rischio.
Gli analisti fanno i conti e i titoli bancari vanno giù a picco
Basterebbe tornare a tassi di interesse normali per far crescere il margine di interesse, ma questo aumenterebbe il costo del denaro con effetti deprimenti su un’economia stagnante. D’altra parte le regole sulla copertura patrimoniale dei rischi bancari in questi anni sono diventate più severe (i famosi CET 1 ecc.) per cui per fare più credito bisogna avere più capitale.
Ma per attirare gli investitori devi promettere dividendi e per promettere dividendi devi produrre margini che, se non aumenti gli impieghi, visto che non puoi aumentare i tassi, a loro volta non aumenteranno mai. Ma gli impieghi non aumentano perché l’appetito al rischio del banchiere è frustrato dal suo costo e da una economia stagnante. E l’economia stagnante produrrà altri fallimenti di imprese e quindi altre sofferenze bancarie. Insomma è un gatto che si morde la coda. La macchina non gira e il sistema si avvita su se stesso.
Ci vuole uno shock. Bisogna creare una discontinuità. Una soluzione è che lo Stato “ricapitalizzi” le banche. Conseguenze: aumenta il debito pubblico, lo spread va in tensione, il costo del debito aumenta, la leva fiscale drena nuove risorse a scapito di investimenti e consumi.
E’ uno schema già noto: nel ’33 l’IRI di Beneduce nacque proprio per salvare le banche in difficoltà per la loro commistione con le industrie a cui avevano prestato troppo denaro e che quindi, anche a seguito della crisi del ‘29, ne condizionavano la stabilità.
Ma erano tempi diversi e il debito pubblico non faceva paura più di tanto.
Il Governo sta negoziando con l’Europa questa strada (circa 40 miliardi) dopo aver ottenuto di aprire un ombrello per crisi di liquidità per 150 miliardi. Come sempre arriviamo tardi.
Gli altri Paesi europei e gli USA hanno già usato questi strumenti con abbondanza prima che venisse introdotto il famoso bail in, ormai famigerato, ma lodevole nelle intenzioni di levare ai banchieri la soluzione della socializzazione delle perdite dovute alla loro incapacità di gestire in modo sano la banca ovvero alla loro alta propensione al rischio per erogare copiosi dividendi e lucrare fantastiche stock option. Che poi sono la stessa cosa: cioè mala gestio.
Ma quei 40 miliardi piuttosto che per dare una stampella di capitale alle banche, dovrebbero essere usati per alleggerirle dalle enormi sofferenze accumulate che, al di là di errori e cattiva gestione, non sono altro che le conseguenze di ormai un decennio di crisi strutturale, prima finanziaria e poi reale, del nostro sistema economico incastrato irrimediabilmente nell’economia globale.
Come si fa a risolvere il problema delle sofferenze?
Essenzialmente in due modi: recuperi i crediti nel tempo, ma devi avere tempo, o li vendi a qualcuno che li recupererà, se il tempo non ce l’hai.
La prima strada può impedire alle banche di tornare a fare credito con efficienza. Ma se le banche non fanno credito l’economia non gira, i fallimenti aumenteranno e quindi anche quel poco o tanto che i debitori insolventi potranno pagare si ridurrà ulteriormente o si allontanerà nel tempo. Insomma se le banche continueranno a tenersi le sofferenze in pancia le cose non potranno che andare peggio.
La seconda soluzione è più efficace. Le sofferenze vengono vendute a chi ha i soldi per comprarle e che ne curerà il recupero nel tempo. Questa modalità farebbe respirare i conti delle banche, ne ridurrebbe i rischi di liquidità ed il fabbisogno di patrimonio mettendole in condizione di superare il credit crunch e rimettere in circolazione il credito che a sua volta fa ripartire aziende, consumi e investimenti e renderà più facile anche il recupero dei crediti dei clienti insolventi.
Facile e virtuoso, ma….
Il nodo delle sofferenze
Le sofferenze sono una merce come tante altre. Anzi sono più propriamente una materia prima (crediti insoluti) che attraverso il processo (industriale) del recupero vengono trasformate nuovamente in denaro. Come tutte le merci hanno un prezzo. Questo prezzo si forma in un mercato.
Il mercato è fatto da venditori (le banche), compratori (gli investitori), la merce (i crediti insoluti), il prezzo (il valore a cui venditore e compratore sono disposti a scambiarsi la merce).
I venditori non mancano. Gli investitori nemmeno (specie fondi anglosassoni , liquidi e con grande appetito di rischio). La merce è abbondante (350 miliardi di crediti deteriorati di cui 200 di sofferenze). Ma il mercato non c’è.
Negli ultimi anni solo pochissime transazioni sono state concluse e molte di quelle annunciate, anche di recente, sono poi naufragate. Il mercato non c’è perché non si forma il prezzo. Venditore e compratore non trovano l’accordo. Il motivo è molto semplice: hanno due metri di misura diversi.
Il valore di un credito insoluto è dato da due componenti: quanto potrò recuperare e quanto tempo ci vorrà per farlo.
Secondo la vecchia battuta “oste come è il vino? Il vino è buono” le banche sostengono che il livello di recupero è x e questa x sta nei loro bilanci.
Come è normale che sia, il compratore non è d’accordo e sostiene che il valore di recupero è y (minore di x). La trattativa, condotta in buona fede e con la determinazione di chi vuole fare la transazione, porterà verosimilmente ad avvicinare x ad y perché la banca sa che chi compra ci vorrà guadagnare e non potrà farlo se la banca non è disposta a cedergli una parte del valore recuperabile di quel credito.
E’ un trasferimento di ricchezza, ma se la banca vuole vendere dovrà accettarlo.
Le variabili qui sono moltissime a cominciare dalla quantità di informazioni ordinate, strutturate, complete e di facile consultazione che la banca metterà a disposizione dei valutatori del compratore perché stabiliscano quanto recupererà dal singolo credito.
Già su questo punto le banche italiane entrano in affanno perché non hanno archivi dati ben organizzati, e informaticamente efficienti. Gran parte delle nostre banche è il risultato di decine di fusioni e di incorporazioni di banche più piccole e con sistemi di archiviazione non omogenei.
Banca d’Italia e BCE stanno spingendo le banche a far ordine, ma ci vorranno anni perché, nonostante la tecnologia, questi aspetti sono stati trascurati per anni: comportavano costi di implementazione, e si sperava che non servissero. Ora paghiamo lo scotto.
Ma anche quando duri negoziati portano a far coincidere x ed y (cioè c’è l’accordo sul valore recuperabile del credito) si apre un altro dibattito.
Quanto tempo ci vuole per incassare?
Il tempo è denaro e 100 euro incassati tra 10 anni non equivalgono a 100 euro incassati tra 5 anni.
Il confronto tra venditore e compratore ora si concentra sui tempi del recupero. Per incassare per via giudiziale un credito in Italia ci vuole molto di più che in gran parte degli altri Paesi europei: 1120 giorni, il triplo rispetto alla Germania!
Sono i così detti tempi di giustizia. Le statistiche giudiziarie sono lacunose, ma è abbastanza certo che la media di tempi processuali di molti Tribunali (al nord) sono meno della metà di quelli di altri Tribunali (al sud).
Sono 10 anni che i vari governi nazionali continuano a produrre innovazioni legislative atte a rendere la giustizia più efficiente perché più rapida.
I risultati non sono mancati, ma in gran parte le nuove norme serviranno a rendere più veloci i recuperi delle sofferenze future e poco incidono sulle procedure già avviate. Anche su questo punto il compratore è prudente perché ha poche informazioni di dettaglio e sa bene che gli avvocati italiani sono molto abili a tutelare gli interessi e i diritti dei loro clienti debitori per i quali guadagnare tempo è un grande vantaggio.
E’ chiaro però che prima o poi il negoziato tra venditore e compratore porterà ad una condivisione anche di questo elemento. Ma qui viene la difficoltà vera che fino ad oggi è stata insormontabile.
Un credito nominale di 100 euro, il cui valore di recupero condiviso è 55 euro ed i cui tempi di recupero (più o meno condivisi) sono di 7,8 anni, per il venditore vale x e per il compratore vale y (minore di x). Perché questa differenza?
Perché per determinare il valore attuale netto di un credito al tempo 0, cioè il suo prezzo di vendita, bisogna fare una operazione matematica che si chiama attualizzazione.
Bisogna cioè stabilire con quale sconto il compratore è disposto a comprare oggi un credito che si realizzerà tra un certo numero di anni. Lo sconto non è nient’altro che il guadagno che il compratore si aspetta di ottenere tra “n” anni su quel credito comprato oggi al prezzo convenuto.
Per fare questa operazione matematica si utilizza un tasso di sconto che corrisponde al tasso di interesse che il compratore vuole realizzare dall’investimento.
Qui l’accordo, finora, è stato quasi impossibile perché le banche applicano un tasso di sconto molto basso, che corrisponde più o meno al rendimento che otterrebbero utilizzando la liquidità acquisita vendendo il credito deteriorato, mentre il compratore che assume il rischio, non trascurabile, di incassare meno di quanto si aspetta, applicherà un tasso di sconto molto alto.
Lo sconto è tanto più alto quanto più è alto il tasso di interesse applicato e quindi il prezzo di vendita del credito è tanto più basso quanto è più alto il tasso di sconto.
Il tasso di sconto è tanto più alto quanto più è alto il rischio e il rischio è funzione dell’incertezza.
La conseguenza è che più è basso il prezzo di vendita del credito, più sarà la perdita che la banca dovrà registrare a conto economico. La perdita erode il patrimonio aziendale e la banca avrà bisogno di nuovo capitale. Ed oggi per banche che rendono così poco per gli azionisti, fare aumenti di capitale è diventato molto difficile.
Un esempio ci aiuta a capire meglio
Facciamo un esempio verosimile quanto impreciso ed assumiamo per assurdo che tutte le banche italiane vogliano vendere i loro stock di sofferenza (circa 200 miliardi).
A seguito degli accantonamenti prudenziali già portati a bilancio negli anni, oggi quei 200 miliardi valgono circa 90 miliardi (con una copertura del 45.5% le banche hanno già registrato perdite per 110 miliardi). Le banche da qualche anno accantonano già anche l’effetto tempo (time value) per determinare il quale applicano un tasso di sconto per il tempo presunto di realizzo. Il loro tasso di sconto, per regole contabili internazionali, deve essere pari al tasso di remunerazione contrattuale dei singoli crediti che, ipotizziamo, è in media il 6% più o meno, per un periodo medio di circa 8 anni.
Nei bilanci delle banche i 90 miliardi di credito recuperabile, al valore attuale netto valgono quindi 55,8 miliardi. Se vendessero tutte le sofferenze a questa cifra non avrebbero perdite ulteriori. Il punto è che gli attuali compratori non sono disposti ad applicare il tasso di sconto del 6%, ma applicano tassi a due cifre. Se il tasso applicato fosse del 19% (non inverosimile) il prezzo a cui sarebbero disposti a comprare scenderebbe a poco più di 22 miliardi, cioè poco più del 10 % del valore lordo dei crediti (200 miliardi) già molto meno del valore attuale netto registrato nei bilanci delle banche (55,8 miliardi). Se le banche accettassero di vendere a queste condizioni dovrebbero registrare perdite aggiuntive tra i 33 ed i 15 miliardi. Insopportabili. Quindi il prezzo non si forma, le vendite non avvengono, le banche continuano a tenersi in pancia le sofferenze e aggravano la loro inefficienza.
Ma la soluzione potrebbe esserci: cambiare il compratore
Coloro che si propongono come compratori oggi sono quasi esclusivamente fondi “speculativi” anglosassoni. Sono liquidi e debbono investire. Ma i fondi speculativi per natura sono investitori “impazienti”, cioè debbono essere in grado di realizzare guadagni elevati in tempi brevi e debbono poter disinvestire con rapidità per cogliere future eventuali migliori opportunità. Per fare questo debbono essere molto severi nelle valutazioni (da qui la loro y è sempre molto lontana dalla x delle banche) e debbono avere rendimenti elevati che non solo soddisfino i loro sottoscrittori, ma consentano anche il disimpegno veloce sul mercato nel rivendere il rischio assunto.
Queste loro abitudini e caratteristiche non sono coerenti con gli investimenti in una materia prima (i crediti deteriorati) che per sua natura ha un “tempo di produzione del valore economico” (liquidazione del credito) molto lunga, specie in Italia.
La loro “impazienza” non si addice ai tempi “storici” ed all’incertezza del quantum tipica dei crediti deteriorati italiani. Quindi non sono dei compratori utili ed adatti. Bisogna trovare investitori “pazienti” cioè che abbiano tempi attesi di rendimento coerenti con i “tempi di produzione di valore” delle sofferenze e si accontentino di tassi di rendimento da “cassettisti“ quindi più vicini a quelli accettabili per le banche venditrici (il 6% invece del 19%).
Esistono? Si. Sono i fondi pensione, le casse di previdenza, le compagnie di assicurazione, le fondazioni bancarie, le poste ecc.
Cioè tutti i soci attuali e/o potenziali del Fondo Atlante.
Non abbiamo inventato nulla.
Un solo rammarico, queste analisi e la soluzione arrivano con almeno quattro anni di ritardo da quando furono pensate e proposte da chi allora non stava nel coro di quelli che dicevano che tutto andava bene e le banche non avevano bisogno di interventi.
Nemo propheta in patria!