I mercati tendono a essere monotematici: si focalizzano di volta in volta su un potenziale fattore di rischio e inseguono in coro un tema d’investimento alla volta, finendo spesso per ignorare scenari alternativi. Nelle ultime settimane sembra toccare al “bear market” dei bond: Bill Gross ha annunciato l’arrivo dell’orso, che sembra archiviare un mercato toro durato oltre 30 anni nel reddito fisso. Le indiscrezioni diramate da Bloomberg su un possibile rallentamento degli acquisti cinesi sui Treasury americani, la decisione di ridurre gli stimoli monetari sulla parte lunga della curva giapponese da parte della Bank of Japan e i timori per un’accelerazione nel processo di normalizzazione da parte della Bce, suscitati dalla lettura delle ultime minute, hanno contribuito ad alimentare la tensione. Risultato: molti analisti ipotizzano che i tassi Usa possano accelerare la risalita, arrivando a quota 2,9% verso fine anno. E se invece fossero indirizzati a un’(imprevista) inversione di marcia?
“La verità è che siamo più vicini alla fine del ciclo economico che non al suo inizio”, ha dichiarato Mike Gitlin, responsabile fixed income di Capital Group, come riporta il Financial Times: quindi – commenta il quotidiano finanziario – “è tutt’altro che inconcepibile pensare che i rendimenti dei Treasury possano calare rispetto ai livelli attuali entro la fine dell’anno, spiazzando ancora una volta i money manager e aggravando il tormento dei fondi pensione”.
È solo uno cinque scenari “contrarian” che il FT ha provato a mettere nero su bianco per il 2018.
Il secondo ha per oggetto il biglietto verde. Il consensus si attende un ulteriore indebolimento rispetto alla moneta unica. Ma se la Bce estendesse a sorpresa il suo programma di quantitative easing e la Fed alzasse i tassi tre o più volte nel corso dell’anno (il mercato propende per soli due ritocchi), allora il dollaro potrebbe invertire la rotta. Del resto, a inizio 2017, proprio sulle previsioni del cambio con l’euro sono inciampate quasi tutte le banche d’affari e i grandi gestori di fondi, ipotizzando una marcia verso la parità. “Una valuta americana più forte sarebbe un ostacolo per i mercati emergenti e soprattutto per l’azionario Usa”, dato che il dollaro debole ha offerto una spinta robusta agli utili oltreoceano delle società rappresentate nell’S&P500.
E cosa accadrebbe se la crescita americana potesse (davvero) arrampicarsi stabilmente sopra il 3%, come promesso da Trump? Molti analisti sono scettici. Ma i recenti stimoli fiscali – somministrati a un’economia che gode di buona salute, circostanza senza precedenti nella storia recente -, combinati a un risveglio degli animal spirits di imprese e famiglie, potrebbero consentire agli Usa di sperimentare un “boom vecchio stile”, annota il FT. Attenzione, però: sarebbe una cattiva notizia per i mercati, perché potrebbe indurre la Fed a imprimere una svolta aggressiva alla stretta monetaria già in corso.
Non bisogna dimenticare la Cina. A sorpresa ha chiuso i 2017 con un Pil in accelerazione rispetto all’anno precedente, più 6,9%. Ma i continui sforzi delle autorità di Pechino per sbrogliare la matassa del sistema bancario ombra, cresciuto a dismisura, come la leva finanziare delle imprese cinesi, potrebbe raffreddare più del previsto la ripresa del colosso asiatico. Con conseguenze tutte da verificare per le borse dei listini emergenti e non solo.
Infine, rimane l’incognita della politica commerciale americana. Negli ultimi mesi, in pochi hanno preso sul serio le ripetute minacce della nuova amministrazione contro i partner commerciali. Secondo Richard Turnill, capo degli investimenti di BlackRock invece è il pericolo maggiore con cui i mercati si potrebbero trovare a fare i conti. Secondo il FT, Turnill non crede all’ipotesi di una guerra commerciale. “Ma il rischio di un approccio protezionista agli scambi commerciali da parte degli Usa potrebbe rimescolare le prospettive sulla crescita e sugli utili”.