Roma – Chi conosce bene Cesare Geronzi è convinto che l’offensiva di Diego Della Valle contro il presidente di Generali abbia segnato un passo indietro dopo l’intervista che il patron di Tod’s ha concesso in tv a Lucia Annunziata.
Anzi, secondo un osservatore molto vicino al numero uno dell’istituto di assicurazioni di Trieste, Della Valle «ha fatto non uno, ma due passi indietro: prima ha attaccato Geronzi e Bazoli definendoli arzilli vecchietti prossimi alla pensione e che fanno un uso estremamente privatistico delle quote in Rcs. Poi, però, Della Valle salva Bazoli, affonda Geronzi, ma dice che la proprietà del Corriere è immutabile per altri due anni. Insomma, non lo sapeva prima che il patto di sindacato di Rcs è blindato fino al 2014?».
Già, non lo sapeva? In effetti, le parole di Della Valle possono essere interpretate dai suoi nemici come una ritirata strategica. Ma la partita in corso nel salotto buono del capitalismo italiano è più molto più ampia di Rcs. E Della Valle, insieme alla cordata di cui fa parte, non ha certo rinunciato a combatterla.
Sono settimane che si discute della fine del capitalismo italiano, o meglio quel sistema ideato da Enrico Cuccia dove le azioni (intese come quote societarie) si pesano e non si contano. Oggi, invece, le azioni si contano e pesano sempre meno. Quello che è molto meno chiaro – e non è stato ancora esplicitamente raccontato – è che questo cambiamento è stato accelerato dalla fase di declino del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Il gradimento del premier e del Pdl, come confermano ogni settimana i sondaggi, è ai minimi storici. L’establishment economico-finanziario, il nocciolo duro del nostro capitalismo, si sta preparando a quella che può essere definita l’era del post-Cav. In pratica si sta ridisegnando la mappa dei “poteri forti”.
Ma si sta veramente preparando un post-Berlusconi? La cosa certa è che un pezzo d’élite economico-finanziaria ha capito che oggi il sistema non gira più intorno all’asse Letta-Berlusconi-Geronzi: «A questo asse – dice una fonte – oggi se n’è aggiunto un altro, quello Tremonti-Lega e i principali protagonisti del capitalismo italiano l’hanno capito». Dunque, non è un caso che il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il garante Antitrust Antonio Catricalà, e adesso Diego Della Valle, abbiano usato toni duri contro quel sistema Berlusconi-Letta-Geronzi, oggi in declino. Vediamo.
La Marcegaglia è stata la prima a denunciare pubblicamente l’immobilismo dell’esecutivo guidato da Berlusconi. Era la primavera del 2010 quando, da un convegno degli industriali a Parma e guardando il premier negli occhi, la presidente di Confindustria diceva: «Bisogna tagliare le tasse subito e bisogna abbassarle a chi tiene in piedi il Paese, basta con promesse generiche dal governo, Confindustria pretende impegni precisi e tempi certi su fisco, taglio degli sprechi e investimenti per infrastrutture, ricerca e innovazione, è venuto il momento di cambiare per poter tutti insieme tornare a crescere». Da allora, la Marcegaglia ha attaccato altre volte il governo inerte, ma nulla si è mosso.
Poi c’è stato il caso del rifiuto di Catricalà. È la fine 2010, il governo fa sapere di aver nominato il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà alla presidenza dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas in sostituzione di Alessandro Ortis. Ma Catricalà decide di rimanere all’Antitrust fino alla scadenza del mandato. Uno schiaffo per il sottosegretario Gianni Letta (Catricalà è considerato un uomo molto vicino al segretario del Consiglio dei ministri) e per Silvio Berlusconi, che ha dovuto inserire una norma ad hoc nel decreto Milleproroghe per allungare di sei mesi il mandato di Ortis all’Aeeg.
Prima di arrivare allo scontro Della Valle-Geronzi, bisogna segnalare il duro colpo che la Consob di Giuseppe Vegas (tremontiano di ferro) ha inflitto al gruppo di Salvatore Ligresti, imprenditore-assicuratore che vanta rapporti di amicizia con Geronzi e con il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Il caso vuole che per una volta la Consob abbia fatto il proprio dovere: ha imposto al gruppo francese Groupama l’obbligo di Opa in caso partecipi all’aumento di capitale delle società Premafin e Fonsai della famiglia Ligresti.
I titoli delle due società sono stati sospesi in Borsa da giovedì – le contrattazioni sono riprese solo ieri – e c’è chi ha letto questa decisione come un duro attacco sostenuto dall’asse Tremonti-Lega contro l’impero berlusco-geronziano: Ligresti se non riesce a ricapitalizzare le sue società rischia il fallimento e oggi non può più contare né sul sostegno economico di Unicredit (come quando al timone di comando della banca di Piazza Cordusio sedeva il “cardinale” Geronzi, come lo chiamano negli ambienti finanziari romani), né su una Consob buonista e filoberlusconiana.
Ed eccoci a Della Valle. Mister Tod’s è stato il primo che ha pubblicamente osato sfidare il sistema capitalistico italiano – quello che gira attorno al sistema Letta-Berlusconi – impersonificato nel banchiere di Marino. Dopo aver già dato a Geronzi dell’«arzillo vecchietto», Della Valle gli ha consigliato anche di andare in pensione. E sulle quote Rcs controllate dal Leone di Treiste ha detto che «è bene che le Generali congelino questa piccola quota e nel momento opportuno la vendano» (a chi? a lui?).
E la società assicuratrice con un comunicato ha ribadito che le partecipazioni di Generali sono gestite dall’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, così come le quote regolate da patti di sindacato: il 3,7 per cento di Rcs, il 2 di Mediobanca, il 4,41 di Pirelli, Telecom attraverso il 30 per cento di Telco e il 3,6 di Gemina. Insomma, le quote le gestisce Perissinotto e non Geronzi, ma il patto di Rcs è bloccato fino al 2014: l’attacco di Della Valle non ha prodotto alcun risultato pragmatico, ha solo ferito il Leone geronziano.
Infine, secondo alcuni osservatori, non è casuale che oggi la magistratura si sia accanita nello stesso momento contro Berlusconi, Geronzi, e Luigi Bisignani: uomo vicino a Gianni Letta e, secondo i pm, ispiratore di molte nomine pubbliche. Berlusconi nei prossimi 50 giorni dovrà affrontare quattro processi. Nel processo sul crac Cirio i Pm hanno chiesto per Geronzi una condanna di 8 anni: la sentenza arriverà a fine aprile, data che coincide con l’assemblea di Generali in cui i soci rinnovano la loro fiducia alla governance. L’asse Berlusconi-Letta-Geronzi resisterà?
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La faida Scajola-Verdini riapre la guerra nel Pdl
di Tommaso Labate
Berlusconi ha altro cui pensare e i colonnelli si contendono le spoglie del partito: il putsch di Verdini, il ritorno di Scajola, le ambizioni di Alfano. E il revival di Dell’Utri.
Roma – A fine mese, se andrà in porto l’operazione revival della Forza Italia del ’94 a cui stanno lavorando Claudio Scajola e Antonio Martino, il Cavaliere potrebbe rendersi conto che il suo partito è a pezzi. Un Pdl fuori controllo insomma.
A Fabrizio Roncone, che l’ha intervistato per il Corriere della Sera, l’ex ministro dello Sviluppo economico ha preannunciato la sua grande rentrée con un messaggio chiaro. «Dieci giorni fa ho avuto un colloquio piuttosto lungo con Berlusconi. (…). Abbiamo parlato di molte questioni. (…)». Il partito? «Ciò che posso dirle è che il Pdl è molto cambiato, negli ultimi anni. E io credo che, al suo interno, si debbano riscoprire valori, ripristinare regole, trovare nuovi entusiasmi».
Gli stessi entusiasmi che, almeno a sentire la ristrettissima cerchia di collaboratori di Scajola, l’ex ministro dello Sviluppo economico, in tandem con Antonio Martino, ha intenzione di proporre nel menù pidiellino a fine mese. Quando con la sua fondazione Cristoforo Colombo, a cui hanno aderito 62 tra parlamentari, organizzerà un’iniziativa per «il ritorno allo spirito del ’94». Quello del Berlusconi della belle époque, insomma. «In fondo», dice un deputato da sempre vicino a Scajola, «si tratta di rimettere all’ordine del giorno quelle idee che anche Giuliano Ferrara è tornato a invocare».
Ancora qualche settimana, insomma, e dentro il Pdl la corrente del «forzisti doc», guidata da Scajola e ispirata dalle idee liberali di Martino, sarà pronta per essere organizzata. E per rilanciare il guanto della sfida a tutti coloro che premono per la promozione di Denis Verdini a coordinatore unico del partito. A cominciare da Marcello Dell’Utri, che al Corriere della Sera di ieri l’ha detto chiaro e tondo: «Il ritorno di Scajola? No, non esiste».
Ma il fondatore di Publitalia, oltre a sponsorizzare la (nuova) ascesa di Verdini e a stroncare le ambizioni di Scajola, s’è spinto oltre. Dentro il Pdl, ha detto, «c’è gente che ormai sta lì da 15 anni», che ha «due, tre, a volte addirittura quattro incarichi». E visto che gli attuali coordinatori sono «troppi, francamente», meglio puntare su Verdini. «Senza dubbio».
Morale della favola? Nel giorno in cui Berlusconi finisce sotto i ferri per un’operazione chirurgica durata quattro ore, il Pdl ripiomba nel panico. Sotto accusa c’è soprattutto l’intervista di Dell’Utri, che ha riattizzato il fuoco dell’antica guerra tra Scajola e Verdini. Sull’asse Montecitorio-Palazzo Madama, i vertici dei gruppi parlamentari pidiellini – che da tempo hanno rinsaldato la loro alleanza con Ignazio La Russa e gli altri ex an – sono andati su tutte le furie. Al punto che di buon mattino, nel giro di telefonate “d’ordinanza” tra i dirigenti del gruppo della Camera e quelli del gruppo del Senato sono finiti commenti del tipo: «Passi per Scajola, che aspetta di essere riabilitato e che prima o poi lo sarà. Ma come si permette Dell’Utri a trascinarci in un pantano del genere sul partito proprio mentre stiamo buttando il sangue per confezionare la riforma della giustizia?». Perché non è piaciuta a nessuno, l’intervista di Dell’Utri. Né agli ex forzisti Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, né all’ex an Maurizio Gasparri.
I problemi, a via dell’Umilità, rimangono. Anche perché, a poche settimane dall’avvio della campagna elettorale delle amministrative, il partito si ritroverà in piena faida. Scajola (e Martino) contro Verdini (e Dell’Utri). E in mezzo il corpaccione che regge il Pdl, da La Russa a Bondi passando per i vertici dei gruppi parlamentari.
Il Cavaliere, per adesso, rimane alla larga dalla contesa. «Non ci sarà nessun cambiamento», assicurano i suoi. Confermati i triumviri, confermato l’assetto attuale. Ma il presidente del Consiglio sa benissimo che nel mirino delle correnti interne ci sono quei «pacchetti di candidature» per le amministrative su cui i big del Pdl si misureranno per accrescere il loro potere all’interno del pacchetto di mischia.
Quelli che l’hanno sentito sfogarsi sul partito, un mese fa, giurano che «l’obiettivo del Presidente era dar vita a un nuovo soggetto del centrodestra, con un nome nuovo (Popolari era la prima scelta, ndr), una stagione congressuale da avviare quanto prima e un leader affidabile: Angelino Alfano». Ma nell’ultimo mese, molte cose sono cambiate. Non la preoccupazione berlusconiana su un partito che, parole del premier, «non riconosco più».
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