Roma – L’era in cui l’Asia esportava la deflazione nel mondo occidentale potrebbe essere agli sgoccioli. E’ quanto ritiene Aneta Markowka, analista di Société Générale, precisando che i paesi asiatici esporteranno da ora in avanti l’inflazione. Dove, esattamente? Negli Stati Uniti, ovvero proprio nel paese in cui le autorità monetarie affermano che per ora il rialzo dei prezzi non è un problema da affrontare con l’adozione di una politica monetaria restrittiva, ovvero con un incremento dei tassi sui fed funds.
“Sebbene le importazioni (di beni) dalla Cina rappresentino una porzione molto piccola dei consumi degli Stati Uniti (inferiore al 5%), sembra che ci sia una forte relazione tra i trend inflazionistici cinesi e il valore core dei prezzi dei prodotti americani – spiega l’analista – L’impatto è però semplice da spiegare: i produttori americani dei beni di consumo sono al momento in forte competizione con le aziende cinesi, che operano a basso costo. Ciò significa che se i prezzi alle importazioni cinesi dovessero aumentare, i produttori americani beneficerebbero di un potere, a livello di prezzi, maggiore (li potrebbero dunque alzare). Ci vuole un po’ di tempo affinché questi effetti possano materializzarrsi, visto che si parla di un arco di tempo di 20 mesi affinchè i prezzi al consumo cinesi condizionino la parte core dell’inflazione americana”.
Negli ultimi 15 anni le aziende manifatturiere cinesi hanno esportato beni in America a costi molto bassi; tuttavia i salari più elevati e i costi delle commodities stanno esercitando pressioni al rialzo sui prezzi applicati ai beni cinesi che vengono esportati negli Stati Uniti: il risultato è che questi beni cinesi, quando arriveranno in America, costeranno di più, permettendo di conseguenza anche alle aziende manifatturiere Usa di poter alzare i loro prezzi.
Considerato l’arco temporale – appunto 20 mesi – che sarà necessario affinché gli Stati Uniti importino le spinte inflattive dalla Cina, lo scenario di un’inflazione importata dal paese dovrebbe avvenire nel 2012 circa.
Tuttavia, secondo l’analista, è improbabile che la Fed agisca in via preventiva. Nel decidere le prossime mosse da adottare in termini di tassi, la Fed fa affidamento infatti sulla performance del NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment), che al momento è pari al 5%-6%, livello che la Banca centrale Usa non reputa ancora pericoloso. Questo significa che la Fed risponderà alle spinte inflazionistiche solo quando esse saranno visibili nell’andamento dei salari o nelle attese sull’inflazione.