«Io non vinco le volate, però non mollo mai e alla fine ci sono»: che suoni come una promessa o come una minaccia, di sicuro è la verità. La «nuova corsa di Prodi» – questo il titolo a tutta pagina di Repubblica, domenica scorsa – è infatti cominciata già da un po’ di tempo (almeno da quando il Professore si fece ardentemente desiderare come sindaco di Bologna, per poi opporre un garbato rifiuto), ma soltanto adesso è in grado di dispiegare tutta la sua portata.
Al Corriere, commentando i risultati del voto, poco prima di partire per un giro di conferenze in Cina, Prodi ha indicato con estrema chiarezza la linea da seguire: «Quando il centrosinistra si presenta unito ottiene buoni risultati. Non si vince con alleanze spurie o strane, non si costruisce un’alternativa partendo dal Centro». Tradotto: il Pd si allei con Vendola e con Di Pietro, e lasci Casini e il Terzo polo al suo destino. Il che significa archiviare una volta per tutte la «vocazione maggioritaria» che Veltroni giudicava addirittura costitutiva del Pd, e tornare all’Unione, cioè all’assemblaggio più o meno omogeneo di forze, partiti, leadership e gruppi più o meno disomogenei.
Il paradosso è che proprio questa conformazione del centrosinistra portò al disastro del secondo governo Prodi, nel 2008, al successivo trionfo di Berlusconi, nonché, appunto, alla nascita del Pd. Ora è tutto cancellato, e si torna alle origini: con la differenza, politicamente cruciale, che il nuovo centrosinistra è in realtà un sinistra-centro, dove le frange radicali, giustizialiste e populiste contano ormai quanto il Pd e ne condizionano continuamente le scelte.
I democratici, come dimostrano i dati reali pubblicati oggi dal Giornale, non godono affatto di buona salute, e le incertezze di linea e di strategia ne hanno indebolito la struttura. Tant’è che oggi la vittoria elettorale porta i volti del vendoliano Pisapia e del dipietrista De Magistris, e chiude simbolicamente (e politicamente) la partita delle alleanze. Debole e frastornato, il Pd dopo le amministrative rinuncia di fatto all’alleanza con Casini (che avrebbe comportato almeno la rottura con l’Italia dei valori), è costretto ad archiviare la proposta di Santa Alleanza, malvista da Vendola e soprattutto da Di Pietro, e accetta di chiudersi nel recinto del sinistra-centro.
È qui che entra in gioco Prodi. Il suo ritorno (per ora soltanto sui giornali e a piazza Maggiore, venerdì scorso, per un bagno di folla fuori programma) non è, come qualcuno vorrebbe far credere, l’amichevole rimpatriata di un pensionato prodigo di buoni consigli, ma la definizione di una strategia molto precisa che ha nel 2013, l’anno del Quirinale, il suo punto d’arrivo e, almeno per i prodiani, il suo sbocco naturale. Che poi questo passi per una candidatura intermedia a palazzo Chigi, tanto più in caso di elezioni anticipate, non è affatto da escludere. Del resto, chi più e meglio di Prodi potrebbe suggellare una nuova, e chissà quanto antica, alleanza fra riformisti e radicali?
Nel ritorno nel Professore non va dimenticata una componente di sottile vendetta nei confronti di Veltroni, il Bruto che, nella vulgata prodiana, ha pugnalato l’uomo cui doveva tutto. Il ritorno in pompa magna all’Unione, per di più a trazione vendolian-dipietrista, è la più clamorosa smentita del Pd veltroniano, nato per chiudere finalmente la partita a sinistra e dare all’Italia una forza riformista moderna. È successo il contrario: il Pd, intossicato di antiberlusconismo e incalzato da Vendola e Di Pietro, è diventato prigioniero degli alleati che avrebbe dovuto distruggere. E che oggi vincono le elezioni al posto suo.
Chissà se Veltroni, il solo che potrebbe sbarrare la strada a Prodi e riaprire una prospettiva riformista in Italia, magari con l’aiuto di Matteo Renzi, avrà la voglia, la forza e il coraggio di uscire allo scoperto. È più probabile che tutto il Pd si accodi, in nome della necessità e con la malcelata convinzione di poter poi tenere le redini della coalizione. Tuttavia, seppure il sinistra-centro dovesse vincere le elezioni, è molto improbabile che finisca diversamente dall’indimenticato governo Mastella-Turigliatto. Ma a Prodi, in fondo, questo dettaglio importa poco: se le cose vanno bene, quando cadrà il governo Vendola-Di Pietro lui sarà già al Quirinale.
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