Nel corso di questi ultimi due anni in cui ho scritto e parlato dell’Italia, ogni volta che ho detto qualcosa di critico sui punti deboli dell’economia italiana, quasi inevitabilmente, qualcuno tra il pubblico o tra i lettori ha risposto dicendo: «Ma noi non siamo come la Grecia, e abbiamo superato molto bene la crisi». Ho sempre contestato la seconda parte di tale argomento, che non è supportata dai fatti, ma mi sono sempre detto d’accordo sulla prima. Ecco perché è così strano, e potenzialmente tragico, che proprio il governo italiano negli ultimi giorni appaia determinato a rendere l’Italia più simile alla Grecia.
Il panico dei mercati finanziari di venerdì, con la svendita delle azioni italiane e il costo del debito pubblico in ascesa, riflette esattamente questo sentimento.
Proprio come per il Portogallo, la Spagna e la Grecia, la crescita economica in Italia è debole e il Pil e la produzione manifatturiera si riprendono più lentamente dalla crisi globale del 2008-09 rispetto a quanto è avvenuto in Francia, in Germania o nei Paesi Bassi. Ma almeno le finanze pubbliche nazionali erano sotto controllo, con un piccolo deficit di bilancio e il rapporto tra debito pubblico e Pil stabilizzato.
Quindi, a differenza della Grecia, la debole crescita economica italiana non implicava che il Paese potesse diventare insolvente e non in grado di pagare gli interessi sui suoi enormi debiti pubblici. Situazione, comunque, che non può essere data per garantita. Perché quando si tratta di finanza pubblica, la differenza tra confortevole stabilità e dolorosa insolvenza è abbastanza esile.
Un aumento dei tassi di interesse praticati dagli investitori in obbligazioni, o un improvviso aumento della spesa pubblica o una diminuzione delle entrate fiscali possono precipitare un Paese nella crisi, soprattutto quando il debito pubblico ammonta al 120% del Pil. (A proposito, il debito pubblico dell’America, Paese spesso descritto come fiscalmente sconsiderato, arriva appena al 65% del Pil).
In alternativa, una crisi può improvvisamente scoppiare quando sorgono dubbi sulla condotta futura della politica del governo, a causa dell’instabilità politica, perché questi dubbi riguardano anche la possibilità di un controllo adeguato sulla spesa e sulle tasse. La debolezza dell’economia italiana e l’enorme debito pubblico la rendono vulnerabile esattamente a questo genere di dubbi.
In precedenza durante la crisi economica e la lenta ripresa, i timori per l’instabilità politica e dei mercati finanziari sembravano aiutare il governo di Silvio Berlusconi. Qualunque cosa tu possa pensare di noi, poteva dire il governo, sarebbe assai rischioso cambiarci o forzare le elezioni in questa situazione. Ma ora le battaglie all’interno del governo sono diventate molto più destabilizzanti delle battaglie tra il governo e i suoi critici. Se questa guerra continua, l’opzione più opportuna sarebbe quella di andare a elezioni anticipate o cambiare il governo.
Le misure fiscali proposte dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sono state accettate dal mercato, ma gli analisti sia all’interno sia all’esterno del Paese hanno notato una loro caratteristica importante: le principali riduzioni del disavanzo di bilancio avverranno in futuro. Questo è importante ora che la battaglia politica tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia è uscita allo scoperto. Perché l’inevitabile conclusione che trarranno gli analisti di mercato è che i tagli in effetti non si faranno mai. La credibilità delle misure fiscali si sta sgretolando.
Pensateci dal punto di vista di un osservatore esterno. Un giorno, il Presidente del Consiglio dichiara che si è sempre opposto alla guerra in Libia, a cui le forze italiane partecipano, come parte della Nato. Un altro giorno il presidente del Consiglio attacca il suo stesso ministro dell’Economia, rende esplicito che favorisce la riduzione delle tasse e permette che uno dei suoi giornali pubblichi notizie dannose su Tremonti. Che cosa dovrebbe credere questo osservatore? Il capo del governo si oppone alle politiche del suo gabinetto, e al suo stesso ministro.
Questo, da un punto di vista nazionale, è un suicidio. Si sta distruggendo la credibilità. L’aspetto più importante delle politiche economiche del Paese, cioè la rigorosa gestione del deficit di bilancio, viene messa in serio dubbio. Se continua su questa strada l’Italia nella mente degli investitori internazionali finirà davvero nella stessa categoria del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna e della Grecia: instabile, insostenibile e insolvente. E per di più tutto questo è del tutto inutile.
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