Di Tommaso Labate
Roma – Caldo faceva nel luglio 2004, caldo fa nell’agosto 2011. Che si dimetta come allora o provi a resistere, paradossalmente, è quasi irrilevante. La storia si capisce dai dettagli. E nemmeno Giulio Tremonti sfugge a questa regola.
In fondo si tratta di un piccolo dettaglio. Di una frase a mezza bocca che il sottosegretario all’Economia Luigi Casero, senza nessuna intenzione di maramaldeggiare sul “suo” superiore diretto, affida ieri ad alcuni colleghi del Pdl. «Siete curiosi di sapere quello che il presidente dirà domani (oggi, ndr) alla Camera? Posso dirvi che ci stiamo lavorando un po’ tutti. Io, Alfano… Soltanto Tremonti è all’oscuro».
Di più Casero non dice. Se non le cose che più o meno sanno già tutti. E cioè che il Cavaliere potrebbe anticipare a settembre quell’ondata di lacrime e di sangue che la manovra aveva fissato per il biennio 2013-2014. E che «Angelino ha chiesto a Berlusconi di sbloccare con la delibera Cipe 7.5 miliardi di fondi Fas per il Sud». Gli stessi che Tremonti, nonostante il tentativo di «Giulietto» di entrare nella partita incontrando Raffaele Fitto a via XX settembre, aveva preteso che stessero congelati.
Dettagli, piccole confidenze. Che nascondono, però, una grande verità. Nel momento in cui il Paese avverte il rischio di essere trascinato in un tracollo finanziario, il ministro dell’Economia è più fuori che dentro la partita. «Lasciamolo tranquillo. Temo che abbia ben altro a cui pensare», s’è lasciato scappare privatamente Berlusconi nell’ultimo fine settimana, non senza una punta di perfidia. Lo stessa con cui, nonostante l’opposizione tremontiana, ha maturato la decisione di presentarsi in Parlamento e «metterci la faccia».
Senza l’antica paura, aveva spiegato il Cavaliere ad alcuni interlocutori, «dei soliti aut aut di Tremonti. Perché di minacce di dimissioni, stavolta, non mi pare aria».
Siamo al quarto tramonto del quarto giro di tremontismo (ministro delle Finanze nel 1994 e dell’Economia dal 2001 al 2004, dal 2005 al 2006 e dal 2008 a oggi)? Quello che gli ha recapitato il blocco Pdl-Lega ieri, nell’Aula di Montecitorio, è qualcosa di più di un “pizzino”. La Camera, che ha respinto la richiesta dei giudici che indagano sul G8 di utilizzare le intercettazioni di Denis Verdini, ha invece autorizzato sia l’apertura delle cassette di sicurezza che l’uso dei tabulati telefonici dell’ex braccio destro di Tremonti, Marco Milanese.
Il tutto mentre il direttore Dipartimento informazioni e sicurezza Gianni De Gennario, rispetto alla sensazione si «sentirsi spiato» dalla Gdf che il superministro aveva affidato a un colloquio con Repubblica, rispondeva lapidario: «Il ministro spiato? I servizi segreti non hanno informazioni e non ne sanno nulla».
La scelta della maggioranza di scaricare Milanese, per giunta nello stesso giorno in cui si salva Verdini, è l’ennesimo siluro nei confronti di Tremonti. Quelli che hanno accesso alle confidenze berlusconiane, i pochi insomma che sono in grado di delineare la strategia mediatica (e diabolica) che ha in mente il Cavaliere, la mettono giù così. Senza troppi giri di parole: «Che il ministro dell’Economia rimanga o se ne vada, per noi non è più un problema. Con Papa ormai in galera e Milanese sotto accusa, noi agiremo senza remore: siamo pronti a una campagna mediatica contro l’opposizione e contro tutti». Che avrà per obiettivo il tentativo di dimostrare che, come ha spiegato Alfano nel giorno della sua nomina a segretario, «alla fine siamo noi il partito degli onesti». Tutti allertati: dalla stampa amica alle televisioni, pubbliche e private, su cui si estende il dominio del Cavaliere.
Tremonti rischia di finire in mezzo a tutto questo. Negli ultimi due anni, aveva tessuto una tela tutta sua: da pezzi di Confindustria a big di Oltretevere, passando – soprattutto – dal gotha del mondo bancario. Aveva un canale privilegiato, tanto per fare qualche nome, con il presidente delle fondazioni di origine bancaria Giuseppe Guzzetti e con un big della finanza rossa del calibro di Giuseppe Mussari. L’appello con cui le parti sociali hanno chiesto «discontinuità» all’esecutivo (firmato, in qualità di presidente dell’Abi, anche dallo stesso Mussari) è la spia che quel dialogo privilegiato s’è interrotto.
Come dimostrano sia l’editoriale del Corriere della sera di ieri (firmato da Francesco Giavazzi) che quello del Sole 24 ore di sabato (firmato dal direttore Roberto Napoletano): entrambi, alle orecchie di «Giulietto», sono suonati come il de profundis. Al pari del gioco messo in piedi dai leghisti, presso cui Tremonti era tornato a chiedere garanzie. Niente da fare. La frase con cui Bobo Maroni annuncia che «domani (oggi, ndr) sarò seduto accando al premier» è più che un avviso di sfratto.
Non è dato sapere quanto l’ultimo successore di Quintino Sella proverà a resistere. Ieri ha riunito il comitato di stabilità, oggi volerà in Lussemburgo per incontrare Jean Claude Juncker. Che siano le sue ultime mosse da ministro è tutto da dimostrare. Di certo c’è che oggi, agosto 2011, fa caldo. Come faceva caldo nel luglio del 2004. Quando Tremonti, accusato da Fini di truccare i conti, prima rifiuto di cambiare ministero e spostarsi agli Esteri. Poi sbattè la porta. Dicendo all’allora nemico Gianfranco: «Io volevo cambiare la storia, tagliando le tasse. Voi siete rimasti quello che eravate, dei fascisti. Io da domani me ne torno a Milano, a lavorare». Poi sarebbe ritornato. Un anno dopo. Ma questa è un’altra storia. Forse.
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