Roma – Oltre il posto fisso, forse non c’è il baratro. C’è un esercito di startup che si è finalmente messo in moto. Alzate lo sguardo. In Cile qualche giorno fa una startup italiana ha vinto la gara mondiale per i migliori progetti di innovazione e business. Doochoo propone un sistema per fare i soldi con i sondaggi in rete, ha già conquistato clienti come Ikea e Toyota, ed è guidata da un giovane che quando parla sembra sempre che stia per ribaltare il mondo: Paolo Privitera, veneziano, 35 anni, da dieci negli Stati Uniti (“me ne sono andato perché volevo correre”).
È uno startupper seriale, nel senso che ne ha all’attivo già sei. Il premio cileno funziona così: i team scelti vengono ospitati a Santiago per sei mesi e incassano 40 mila dollari ciascuno. Tanti? Pochi, se pensate che Doochoo potrebbe essere comprata entro l’anno per 25 milioni di dollari. Dice Privitera: “A San Francisco non ho mai visto tanti startupper italiani come in questi giorni”.
Un terremoto? “No, è un tumulto”. Ecco, tumulto rende meglio l’idea della rivoluzione in corso. Tumulto iniziato da un po’: l’8 dicembre a Parigi un’altra startup italiana ha vinto LeWeb, il più importante evento europeo dedicato all’economia
digitale.
Per i francesi è stato uno shock: appena qualche giorno prima il presidente Sarkozy faceva i sorrisini quando gli nominavano les italiens. Antonio Tomarchio, 29 anni, partito da Giarre, provincia di Catania, sapeva di dover battere anche lo spread della credibilità: è salito sul palco ed ha sbaragliato la concorrenza parlando di Beintoo (una piattaforma per applicazioni legate al gioco che ha tre milioni di utenti al giorno, di cui un milione solo in Cina).
Ancora un passo indietro: a ottobre aveva fatto scalpore il fatto che Mashape, l’impresa di tre ventenni che avevano polemicamente lasciato l’Italia, era stata finanziata con circa un milione e mezzo di dollari dal numero uno di Google e dal fondatore di Amazon, ovvero la Champions League della Silicon Valley. Ma il tumulto non riguarda solo gli startupper lontani. Se restiamo ai casi di successo, quello forse più eclatante in questi giorni è AppsBuilder, piattaforma per farsi da soli applicazioni per telefonino, creata da un ingegnere del Politecnico di Torino di 25 anni, Daniele Pelleri: in undici mesi ha già sfornato 20 mila apps che sono state scaricate oltre un milione di volte.
Questo elenco potrebbe non finire mai. E vuol dire in fondo una cosa sola: avanza una generazione di startupper. Sono di solito molto giovani, in prevalenza uomini ma ci sono tanti casi di donne (RisparmioSuper di Barbara Labate è il più noto). E poi: sanno usare benissimo la Rete; parlano alla perfezione almeno l’inglese; viaggiano in economy anche quando hanno successo perché i soldi non si sprecano; spesso all’inizio non hanno un vero ufficio e sanno raccontare il loro progetto in tre minuti esatti, non una misura qualsiasi, ma il tempo di una corsa in ascensore con un potenziale investitore (di qui la formula americanissima degli “elevator pitch” per le ormai tantissime competizioni a caccia di capitali).
Ma, soprattutto, gli startupper, non sanno cos’è il posto fisso. “Il nostro obiettivo nella vita non è trovarci un lavoro, ma creare lavoro”, ha scolpito nel web Max Ciociola, 34 anni, fondatore di musiXmatch e “startup activist”. L’occasione fu la sua “lettera di uno startupper a Berlusconi” e la frase in realtà non è originale: è una citazione della risposta che il rettore di Harvard dà ai gemelli Winklevoss nel film “The Social Network”. Ecco, Mark Zuckerberg per molti è un modello: “Ha successo – secondo Ciociola – perché sa rendere felici un miliardo di utenti”.
Gli startupper ci sono sempre stati. Alla fine degli anni Novanta, con la cosiddetta new economy, anche in Italia ci fu un fiorire di nuove imprese legate al web. Molte fallirono, mentre alcune sono diventate grandi, molto grandi: come Yoox, il portale per vendere la moda online, creato da Federico Marchetti dodici anni fa e sbarcato in Borsa nel 2010 sfidando la crisi. Proprio l’altro giorno Yoox ha reso noto di aver chiuso l’anno con ricavi netti per quasi 300 milioni di euro (più 35 per cento sull’anno precedente): ecco cosa è diventata una startup in cui all’inizio credeva solo Elserino Piol, il decano degli investitori italiani.
Ora c’è una nuova onda ma è diverso. È molto più alta. Facciamo un esempio. Un anno fa, in occasione dei 150 anni dell’unità d’Italia, Telecom Italia e il Premio Nazionale Innovazione si erano messi in testa di trovare “i Nuovi Mille”: sembrava un obiettivo esagerato scovare mille aspiranti startupper in un paese in cui si diceva che “gli eventi per startup sono più numerosi dei progetti”. Si iscrissero in oltre duemila: calcolando quattro o cinque persone dietro ogni progetto, voleva dire diecimila potenziali startupper.
Un piccolo esercito per fare una nuova Italia. Neanche tanto piccolo, in fondo. Oggi le imprese rischiose, innovative ma con dentro il seme del futuro, non sono più l’eccezione di moda: sono la maggioranza. Secondo le stime della Camera di Commercio di Monza e Brianza, nei primi tre mesi del 2012 per la prima volta ci sarà uno storico sorpasso: i ventenni che apriranno una impresa (19 mila) saranno di più di quelli che troveranno un posto di lavoro a tempo indeterminato (18 mila). Inoltre i primi assumeranno seimila persone.
L’esempio più eclatante in casa nostra è quello di Groupon, il colosso dei coupon scontati lanciato nel novembre 2008 a Chigago da Andrew Mason. Alla fine del 2010 Giulio Limongelli, 30 anni e un curriculum lungo un metro, ha aperto la sede italiana a Milano: da allora ha assunto – a tempo determinato – 450 persone. Di media una al giorno. Quanti altri lo hanno fatto in Italia? Nell’attuale sistema economico sono le startup l’unico motore di nuova occupazione: fu questa conclusione di un report della fondazione Kaufmann a convincere il presidente Obama a lanciare – esattamente un anno fa – il progetto Startup America, ovvero una rete di incentivi, facilitazioni e collegamenti per far ripartire l’economia americana con una formula che andava “oltre il posto fisso”.
In Italia un progetto simile non c’è ancora ma alcuni tasselli stanno andando al posto giusto. Il primo è stato la possibilità per gli under 35 di costituire società semplificate con un euro di capitale e senza notaio. Sembra poco, ma è una svolta i cui effetti si vedranno presto. In questi giorni tantissimi ragazzi stanno aspettando che questa previsione del decreto CresciItalia diventi operativa per trasformare il loro progetto in un business.
Nasceranno migliaia di startup? “Possibile. Ma per farle crescere servirà il venture capital”, risponde Gianluca Dettori, ex startupper di successo degli anni Novanta, felicemente passato nel ruolo di talent scout dell’innovazione. “In fatto di venture capital siamo l’ultimo paese d’Europa, per ogni dollaro investito in Italia, la Svizzera ne investe 69, l’Olanda 62 e persino Portogallo e Grecia fanno meglio di noi”. Come rimediare? Un anno fa, era il 2 febbraio, alla Camera dei deputati il premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps venne a sostenere la causa di una “Banca dell’innovazione”.
Ad ascoltarlo, fra gli altri c’erano due ministri del governo Monti: Corrado Passera e Francesco Profumo. Non è un caso quindi che oggi si stia andando in quella direzione. Spiega Massimiliano Magrini, ex capo di Google Italia, oggi attivissimo investitore di capitale di rischio: “Il Fondo Italiano ha deciso di destinare 50 milioni di euro al finanziamento dei venture capital. Sono tanti soldi per il nostro mercato”. Se sapremo approfittarne, può essere un anno memorabile. Startup, Italia!
Copyright © La Repubblica. All rights reserved