. C’è un desiderio inconfessabile che unisce destra e sinistra: alleggerire gli stipendi degli alti burocrati di Stato. Buste paga in alcuni casi scandalosamente alte, che lievitano come panna montata grazie al cumulo degli incarichi o a codicilli che hanno finora consentito per esempio ai magistrati «fuori ruolo» impegnati negli incarichi di governo di portare a casa due stipendi facendo un solo lavoro.
Vi sareste mai immaginati di veder salire proprio dal partito di Silvio Berlusconi l’onda della protesta, fino a chiedere a gran voce di ripristinare quella misura «stalinista» voluta da Romano Prodi ben quattro anni fa «ma mai attuata», si rammaricavano lo scorso agosto una quarantina di onorevoli pidiellini? E avreste mai pensato che il tetto alle retribuzioni dei manager pubblici sarebbe stato reintrodotto fra gli applausi della sinistra proprio dal governo delle liberalizzazioni?
Dove, al solo pensiero di doverlo applicare, qualcuno ha già l’orticaria. «Credo che a causa del tetto faremo fatica a trovare professionalità di alto livello», ha confessato ieri Mario Monti. E non tarderà a verificarlo. In un altro momento si sarebbe formata una fila chilometrica davanti alla porta del ministero del Tesoro, che è alle prese con la scelta dell’amministratore delegato della Banca del Mezzogiorno. Ma non ora, che quel posto può valere al massimo… Già, quanto può valere? Perché a quanto pare non sanno nemmeno esattamente a quanto ammonta quel tetto, vista la quantità di cifre che sono circolate. Si va dai 311 mila ai 294 mila euro lordi all’anno, passando per 299 mila e 305 mila, a secondo dei gusti.
Ma il numero di quanti, nella pubblica amministrazione, superano abbondantemente quella cifra, è certo impressionante. Se fa effetto la clamorosa denuncia dei redditi del capo di gabinetto del ministro dell’Economia Vincenzo Fortunato, che tre anni fa toccava un livello di 788 mila euro, semplicemente inconcepibile per un dirigente pubblico, non desta minore sorpresa l’incredibile sovrapposizione di incarichi del suo ex collega dell’ufficio legislativo del medesimo ministero, Gaetano Caputi: direttore generale della Consob (395 mila euro), componente dell’autorità per gli scioperi (altri 95 mila), nonché docente fuori ruolo ancorché retribuito dalla Scuola superiore di economia e finanze. Retribuzione a cinque zeri, dicono i bene informati, ma top secret .
Ed è questo il punto. Se grazie alle norme volute dall’ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, possiamo conoscere (e giustamente) perfino lo stipendio dell’ultimo dirigente di seconda fascia, e anche la paga di un soggetto apicale qual è il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, accreditato di 516 mila euro l’anno (il vecchio miliardo di lire, tondo), a proposito delle reali retribuzioni non meno stellari dei più stretti collaboratori dei ministri si possono fare solo congetture. Una cosa inaccettabile, che fa salire ancora di più la temperatura.
Così non meraviglia che molti parlamentari, i quali oltre a dover subire qualche sforbiciatina sono stati pure messi alla berlina, non vedano l’ora di vendicarsi a spese di una tecnocrazia sempre più opulenta e sempre meno trasparente. Anche se non si può escludere che quella lobby potentissima riesca a convincere i politici a far naufragare il tetto. Non è successo così forse anche con la norma voluta da Prodi? Il limite era lo stesso di oggi: ma alla fine di una melina durata più di due anni il regolamento attuativo partorito dal governo Berlusconi l’ha di fatto cancellato. Stabilendo che valeva solo per gli incarichi aggiuntivi. Dunque, senza sfiorare gli stipendi.
Monti si trova in una situazione leggermente diversa. Siamo in piena recessione, il potere d’acquisto delle famiglie è in sofferenza, i poveri aumentano, la disoccupazione galoppa. Come spiegare agli italiani che c’è gente pagata dallo Stato che guadagna come trenta impiegati e non può rassegnarsi a incassare «soltanto» dieci di quegli stipendi? Ecco perché chi conta di salvarsi grazie alle «deroghe», ha probabilmente fatto male i propri calcoli. Monti non sarà così generoso. Come li ha sbagliati, a meno di sgradevoli sorprese, chi è sicuro di far passare il principio che il famoso tetto debba essere applicato soltanto a partire dai contratti futuri. Anche qui: come lo spiegherebbero agli italiani?
Ma se il principio per cui nessuno stipendio potrà superare quello del primo presidente della Corte di Cassazione potrà essere faticosamente fatto digerire ai «pezzi da novanta» nei ministeri e nelle authority, problemi ben più grossi ci saranno nelle società pubbliche non quotate in borsa. Il tetto in teoria riguarda anche loro. E rischia di essere una questione complicatissima da risolvere, tanto più alla luce della confessione fatta ieri dal premier. Il regolamento che il ministro Filippo Patroni Griffi ha annunciato per maggio non sarà una passeggiata.
Avete idea di quanti siano nelle aziende di Stato gli stipendi che superano i 300 mila euro l’anno? Centinaia. E non parliamo soltanto dei capi azienda. L’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti nel 2008 guadagnava 871 mila euro: poco al di sotto di quel livello era il presidente Innocenzo Cipolletta, ora sostituito dall’ex presidente della Consob Lamberto Cardia. La retribuzione di Massimo Sarmi, amministratore delegato delle Poste, si aggira intorno al milione e mezzo di euro? Il presidente Giovanni Ialongo ha diritto secondo la Corte dei conti a 635 mila euro: un bel salto, rispetto a quando era segretario del sindacato postelegrafonico della Cisl. Per non parlare dei più alti dirigenti di quei gruppi. Decine di persone con retribuzioni certamente più alte di 300 mila euro.
Ma andiamo avanti. L’amministratore delegato dell’Anas Pietro Ciucci intasca 750 mila euro. La stessa cifra del suo collega di Fintecna Massimo Varazzani, ex altissimo dirigente di Intesa San Paolo, paragonabile a quella del presidente del Poligrafico Maurizio Prato. Il capo della controllata Fintecna immobiliare Vincenzo Cappiello, una vita nelle partecipazioni statali, è fermo (si fa per dire) a 505 mila. Mentre l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, già capo di Deloitte consulting, ha una retribuzione di 835 mila euro (rimborsi compresi).
Ma è niente in confronto alla densità di buste paga galattiche riscontrabile in Rai. Il presidente Paolo Garimberti incassa 448 mila euro. Il predecessore di Lorenza Lei alla direzione generale guadagnava 715 mila euro. Che porzione di quel fantastico stipendio l’ha seguito alla Consap, altra società pubblica dove Mauro Masi ha traslocato? Boh. Ha raccontato poi nel 2010 Emiliano Fittipaldi sull’ Espresso che l’ex direttore Claudio Cappon, rimasto senza un incarico corrispondente, continuava a percepire 600 mila euro. Per non dire dei giornalisti: la tivù di Stato ha decine di direttori, che non guadagnano certo soltanto come un presidente di Cassazione. E dei dirigenti di rete: si va dai 400 mila di Fabrizio del Noce ai 449 mila di Gianfranco Comanducci.
E poi ci stupiamo che in Parlamento qualcuno pretenda gli elenchi dei candidati alla ghigliottina? Però fra questi, è bene che gli onorevoli ne prendano coscienza, non ci saranno i dipendenti degli organi costituzionali: lì si aprirebbe una pagina ancora più sconcertante, tenuto conto che la retribuzione media di un dipendente del Senato, commessi e barbieri compresi, è più alta dell’indennità parlamentare. E 300 mila euro è lo stipendio di un consigliere con 25 anni di anzianità.
Il segretario generale della Camera Ugo Zampetti e la sua collega del Senato Elisabetta Serafin intascano più del doppio del capo dell’amministrazione del parlamento britannico. Che guadagna 235 mila euro: meno di uno stenografo di palazzo Madama.
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