New York – Ci sono gia’ tutti gli ingredienti del caso. Dopo 12 lunghi mesi di scontri spietati quella che per ora e’ una rivolta civile intestina che ha fatto oltre ottomila vittime rischia di trasformarsi in un conflitto internazionale “totale” tra arabi e Occidenti da una parte e Russia, Cina, Venezuela e Iran dall’altra.
Il concetto degli Stati Uniti e’ semplice. Non c’e’ molto che possono fare, finche’ Cina e Russia non condividono l’approccio duro della comunita’ internazionale. Armare i ribelli puo’ essere la soluzione piu’ facile da percorrere, secondo gli analisti.
Allo stesso tempo devono fare i conti con l’ostinazione di Bashar al-Assad, il quale non ha alcuna intenzione di abbandonare la guida del paese, almeno non finche’ sara’ una rivoluzione o una guerra civile a imporglielo. Il presidente Usa Barack Obama e’ convinto che il presidente della Repubblica siriana lascera’ il potere e che ormai non e’ una questione di se ma di quando.
E’ passato esattamente un anno dall’inizio delle proteste in Siria, sulle ali del successo riscontrato dalle popolazioni di Nordafrica e Medioriente nell’ambito dell’onda lunga della primavera araba. Il 15 marzo del 2011 centinaia di siriani si e’ riversato nelle strade della citta’ meridionale di Daraa, infuriati per le violenze e abusi commessi contro un gruppo di scolari.
Da allora le proteste si sono propagate, di pari passo con la miseria e la violenza. Secondo le Nazioni Unite oltre 8 mila civili hanno perso la vita. E mentre le cronache quotidiane parlano di torture sistematiche, stragi di civili e bombardamenti mirati, per la prima volta dall’inizio della repressione del regime di al-Assad contro la popolazione degli insorti, il mese scorso le autorita’ statunitensi hanno iniziato a prendere in considerazione anche l’opzione militare. “Nessuna soluzione e’ da escludere”, ha fatto sapere il Dipartimento della Difesa. Si rischia il ripetersi del caos libico. E forse peggio.
Il governo siriano ha ormai da tempo perso il polso della situazione e sta perdendo pezzi. Uno dei ministri di spicco dell’esecutivo, il capo del dicastero del petrolio, ha lasciato l’incarico per unirsi agli insorti. Assad e i suoi hanno un’idea sempre piu’ offuscata di quale sia il volere popolare e il bene per il paese. I contestatori antigovernativi vengono considerati alla pari di terroristi dalle autorita’, le quali non ne vogliono sapere di fare concessioni, assecondando ad esempio le richieste del Fronte Ribelle Armato o accettando suggerimenti dal Consiglio di Nazionale Siriano all’opposizione.
Pur sottolineando che preferirebbe evitare un simile intervento, che significherebbe guerra internazionale, Washington rischia di vedersi costretta a scegliere l’opzione piu’ estrema. In particolare dopo che gli sforzi compiuti da Usa e Lega Araba per raccogliere consensi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e imporre sanzioni piu’ pesanti contro il governo siriano sono stati resi vani dal no di Cina e Russia.
La paura e’ che la persistente instabilita’ di un paese complicato al cuore del mondo arabo sfoci in un un conflitto internazionale fratricida. Secondo gli analisti tale rischio sta aumentando. Nonostante le difficolta’ dei media stranieri a fornire informazioni sul conflitto, grazie a social media e casi di “citizen journalism”, le operazioni di repressione spietata contro la popolazione sono sotto gli occhi di tutti. Senza Internet l’impressione e’ che la gente sarebbe morta in silenzio.
Le ultime notizie provenienti dal paese mediorientale parlano di stragi di civili da parte delle forze governative. Amnesty International ha lanciato un appello per un’inchiesta contro i responsabili delle torture contro i civili. Le forze di sciurezza hanno instaurato un “mondo di tortura sistemica da incubo”, che aveva “l’obiettivo primario di degradare, umiliare, vessare e terrorizzare le vittime in silenzio”. I dettagli – che parlano di 31 tipi diversi di tortura – sono stati forniti dai siriani rifugiatisi in Giornania.
L’Onu ha promesso che dispieghera’ delle unita’ di controllo nei paesi confinanti, con l’intento di raccogliere informazioni e prove per aprire un’inchiesta e portare i colpevoli davanti alla Corte Criminale Internazionale.
Tali atti sanguinari non sono, tuttavia, sempre condannati all’unanimita’ dalla comunita’ internazionale. Per interessi personali, le nazioni “amiche” Cina e Russia – che devono fare i conti con desideri indipendisti di alcune minoranze interne – continuano a porre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro iniziative piu’ severe delle sanzioni imposte finora. Tra le quali l’uscita di scena di Assad.
Al termine di una visita a Damasco, nelle scorse settimane, il capo della diplomazia russa Lavrov, ha cercato di gettare acqua sul fuoco, sottolineando che Assad ha promesso di mettere fine alle violenze. Il ministro degli Esteri di Mosca ha pero’ aggiunto che il risultato dei colloqui per mettere fine alla spargimento di sangue non deve essere predeterminato, ribadendo l’opposizione alle pressioni occidentali e arabe perche’ Assad rinunci al potere.
Intanto gli scontri violenti continuano: i bombardamenti a Homs delle forze leali al presidente al-Assad continuano a fare decine di morti e c’e’ chi ha iniziato a parlare di “genocidio”. In particolare dopo che sono morti in 47 tra donne e bambini, come riferito dall’Osservatorio per i diritti umani.
A rendere complicata l’analisi della situazione e’ il fatto che spesso le notizie sono riferite dagli attivisti e da organizzazioni non governative. Ai media internazionali non e’ piu’ concesso avere ingresso nel paese. Chi lo fa in incognito, mette a rischio la priopria incolumita’. E’ cosi’ che ha perso la vita a Homs il giornalista e cameraman Gilles Jacquier di France 2.
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Per avere una chiave di lettura completa del conflitto in corso sarebbe necessario reperire fonti affidabili ufficiali. Ma ai giornalisti stranieri e’ impedito l’ingresso e alcuni riescono ad entrare all’interno dei confini del paese solo grazie ai visti concessi dal Libano.
Sono pertanto Organizzazioni Non Governative e associazioni non-profit impegnate sul posto a dare i numeri del bilancio delle vittime: si parla di 8 mila morti sin qui, stando agli ultimi dati.
Per comprendere la diversita’ di opinioni nel dare il resoconto degli scontri, l’agenzia stampa di stato sostiene che “gruppi terroristici armati” continuano a minacciare la sicurezza di Damasco, attaccare posti di blocco stradali della polizia, lanciare bombe in citta’ e contro raffinerie.
La situazione piu’ calda si registra a Homs, uno dei centri economici piu’ importanti e piu’ multiculturali del paese, da mesi in piena ebollizione. Gli abitanti di Homs rispecchiano la diversita’ religiosa del paese. Popolata essenzialmente di origini alauite, cristiane e sunnite, Homs ospita anche minoranze armene e rifugiati palestinesi.
La comunita’ internazionale punta sulla soluzione diplomatica: le speranze sono tutte riposte nella missione dell’inviato dell’Onu Kofi Annan, ex segretario generale dell’Organizzazione. Nella sua ultima visita non e’ riuscito a ottenere quanto voluto: un accordo tra i ribelli e il regime di Assad. Ma venerdi’ tornera’ a Damasco con l’obiettivo di ottenere un immediato “cessate il fuoco”.
Sul piano diplomatico, un ruolo chiave lo giochera’ pero’ anche la Turchia. Il regime siriano e’ ormai isolato politicamente, diplomaticamente ed economicamente, mentre e’ innegabile che l’opposizione si sta rafforzando. L’Italia ha seguito i passi di Stati Uniti e Francia chiudendo l’ambasciata a Damasco.
Il conflitto, al contrario di quanto sostenga il premier britannico David Cameron, continua ad avere le sembianze piu’ di una guerra civile che di una vera e propria rivoluzione come quelle avvenute in Egitto e Tunisia. Per questo Istanbul progetta di organizzare “il piu’ presto possibile” una conferenza internazionale sulla crisi in Siria. “Siamo determinati – ha spiegato il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu – a dare vita ad un forum allargato per promuovere un’intesa internazionale con tutti i Paesi preoccupati” dai recenti sviluppi in Siria.