Roma – “Il Pdl è finito. Il Pdl non è più il mio partito”. Palazzo Grazioli non è più il cuore del centrodestra italiano. In un giorno si è trasformato in un bunker. Nel quale Silvio Berlusconi si è rinchiuso. Paralizzato non tanto dalla sconfitta elettorale, quanto dalla consapevolezza che il suo progetto politico sta effettivamente evaporando.
L’ex premier ammette che la sua creatura ha ormai concluso un ciclo vitale. “Basta con questa struttura senza senso, con questi coordinamenti, con questi congressi. Dobbiamo imparare da Grillo”. E inventare un nuovo contenitore. “Solo io posso guidarlo”. Una sorta di mossa del cavallo per provare a invertire il trend che contempla anche la necessità di mettere sul tavolo l’ultima carta spendibile: un’intesa sulla riforma elettorale con il Pd per il doppio turno. Nella speranza di sparigliare e aprire un cantiere. “Cambiamo gioco e vediamo che succede”.
Nell’ultima trincea berlusconiana, però, solo pochissimi riescono ad avvicinarsi. Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Paolo Bonaiuti. Gli altri restano lontani. Il Cavaliere si sente solo, accerchiato. Soprattutto non in sintonia con il suo partito e con una debacle senza precedenti. Ha voluto deliberatamente sconvocare il vertice fissato ieri per evitare l’incontro con i “colonnelli” del suo “ex partito”. Il timore che lo scontro potesse degenerare in una guerra totale termonucleare ha preso il sopravvento.
Del resto, il Popolo delle libertà non solo è stato sospinto verso il baratro dell’estinzione dall’ultima tornata amministrativa, ma è diventato una polveriera con la miccia già innescata. La battaglia interna è ormai il più classico “tutti contro tutti”. “Il problema – si sfoga l’ex ministro Andrea Ronchi – è che nessuno sa più cosa succede. Non c’è una rotta. Tutti pensano che un’era sia finita”.
E già, l'”era berlusconiana”. La sua conclusione sta provocando non solo l’inabissamento di questo centrodestra, ma sta costringendo i suoi adepti a lottare per la sopravvivenza e a immaginare un percorso per salvarsi. Anche a scapito dei “colleghi” di partito. Gli ex An di La Russa e Matteoli contro le colombe di Frattini e Gelmini. Verdini e Alfano contro la Santanché. Gli uomini del nord come Formigoni contro quelli del sud come Fitto. A livello locale è ancora peggio. Il terreno frana nelle regioni settentrionali e il gruppo dirigente intermedio parte alla rincorsa di Casini e di Grillo. In quelle meridionali la confusione è anche maggiore. Con i big locali sprovvisti di qualsiasi sponda, anche ipotetica. Una babele di voci e posizioni ormai incontrollabili. Che inseguono un destino già segnato: la fine del Pdl.
Un orizzonte, però, che Berlusconi sembra voler anticipare. Affranto, demoralizzato come non mai, tra lunedì sera e ieri si è lasciato andare a più di uno sfogo. “Bisogna cambiare tutto. Basta con questo partito fatto di coordinamenti, tessere, congressi. Questo non è più il mio partito”. Una scelta in parte dettata dalla disperazione. Dalla consapevolezza di non poter fare altrimenti. I contatti con Casini e Montezemolo ci sono stati. Ma l’esito è stato a dir poco drammatico. “Vogliono che Berlusconi non si candidi nemmeno in Parlamento per fare un accordo con noi – sbotta Gaetano Quagliariello – ma questa non è una resa. E’ l’umiliazione”. Un percorso senza alternative, dunque.
“Se avessimo fatto già in questa occasione le liste civiche – è il rimprovero che Berlusconi muove al suo stato maggiore – staremmo parando di un’altra storia. E invece La Russa mi diceva che bisognava strutturare il partito, Angelino che disorientavamo. Ecco, invece, così abbiamo orientato. Bel capolavoro”. Giudizi che la dicono lunga su quel che l’ex premier pensa dei suoi “coordinatori”. Che adesso vuole azzerare. Compreso il suo “figlioccio” Angelino, nei confronti del quale non risparmia nulla: “Purtroppo non esiste. Ci sono solo io. Solo io posso salvare. Solo io posso candidarmi come leader. E lo farò, credetemi”.
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Il Pdl, nato solo tre anni fa, sembra ormai solo un ricordo. E anche la sua classe dirigente appare avvolta da una nuvola che li rende indistinti. Tutti travolti da un vento che soffia in primo luogo contro il centrodestra. E in qualche modo lo stesso Cavaliere ne prende atto. Nel suo bunker il crollo del Popolo delle libertà perde ogni contorno. Chi gli parla lo descrive assillato da troppe idee e troppo diverse. Eppure su un punto non ha dubbi: “I moderati in Italia non ci sono più. Dove sono? Tutti e tutto è radicalizzato. Perché noi dovremmo fare i moderati? Casini non vuole venire con noi? Bene. I fascisti si vogliono tenere il partito? Meglio, si tengano il Pdl”.
A suo giudizio, però, se quello che è stato il centrodestra si può salvare, non è con il partito nato dalla fusione di An e Forza Italia. Serve qualcosa di nuovo. Cosa? Questa volta nemmeno i focus group cui Berlusconi spesso ricorre gli offrono una risposta netta. Nella testa gli ronza sempre il modello dei “Tea party” americani. Ma nello stesso tempo è attratto dall’esempio grillino. “Quel Grillo piace – ha scandito destando non poca sorpresa nei suoi interlocutori – dovrebbe essere uno di noi. O meglio dovremmo essere noi come lui. La gente vuole quello. Vuole sentire quelle cose e non i congressi e i coordinamenti. Ma secondo voi a Parma chi ha fatto vincere il grillino? Noi, i nostri elettori”.
Ma per inseguire il paradigma “Cinque stelle”, deve sparigliare. Con un problema non da poco. Le carte per farlo non sono ancora nelle sue mani. Nei prossimi giorni, però, una prima mossa intende compierla: aprire alla riforma elettorale a doppio turno. Per dare un segnale ai suoi elettori, aprire un fronte di alleanze non troppo vincolante con la Lega e i centristi. E soprattutto provare a “salvarsi e salvare il suo schieramento” attraverso un patto con il “nemico”: con il Partito Democratico. Un tentativo estremo. Che, con ogni probabilità riceverà una risposta negativa da parte di Bersani. Ma nel frattempo l’immenso campo elettorale del centrodestra continua a essere sguarnito. Disponibile per chi voglia ararlo come accadde proprio nel 1994 dopo la fine della Democrazia cristiana.
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