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Camusso: “Il rigore non basta, sì alla patrimoniale”

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Roma – I lavoratori hanno già pagato abbastanza. Al governo, nell’incontro sulla spending review, diremo che bisogna cercare risorse altrove. I lavoratori pubblici hanno dato, e molto, molto di più dei dirigenti. Il conto va fatto pagare a qualcun altro. Adesso la vera priorità è creare lavoro». Parla Susanna Camusso, leader della Cgil.

Segretario, partiamo dal dato Istat sulla disoccupazione giovanile: il 36,2%, mentre quella complessiva sembra aver frenato.

«Il tasso di disoccupazione questo mese si è stabilizzato, ma poco cambia: è un dato drammatico. E soprattutto emerge che per i giovani non ci sono opportunità di impiego, con situazioni ancora più difficili nel Mezzogiorno. Per questo diciamo che si deve ripartire da un piano del lavoro mirato sui giovani, senza il quale il paese non uscirà da questa crisi».

Un piano del lavoro va finanziato, però.

«Noi stiamo lavorando a una proposta organica di sviluppo e di crescita. Certo servono risorse, ma non si può insistere sulla impossibile logica del rigore e del solo controllo del debito. Così si amplifica la recessione ed evidentemente bisogna cambiare politica. Come? Con una vera redistribuzione fiscale attraverso una patrimoniale, che non è una bestemmia; non riducendo il perimetro dello Stato, ma valorizzando beni (non le aziende pubbliche e le municipalizzate) alienabili; mettendo in moto investimenti in grandi imprese; guardando verso il futuro con le reti digitali, l’innovazione, la chimica verde».

Le recenti decisioni del vertice Ue di Bruxelles aiutano?

«Sono il segno di un cambiamento, la presa d’atto che ci vuole un’Europa politica in grado di contrastare la speculazione. Ovviamente bisogna vedere cosa succederà all’Ecofin del 9 luglio. Queste decisioni sono merito della riacquisita credibilità dell’Italia, ma soprattutto della vittoria di Hollande in Francia. Sono strumenti utili, anche se incompleti, visto che ancora non si è aperto agli eurobond. E c’è un problema tutto italiano: le politiche di rigore non bastano. Bisogna far emergere risorse sommerse, c’è una distribuzione del reddito iniqua che deprime i consumi e riduce la produzione. Se una parte fondamentale del paese, quella che vive di lavoro e pensioni, non ce la fa, il paese non ha speranza di crescita».

E ora arriva la spending review. Avete già lanciato l’altolà.

«La spending review in sé è utile; l’altolà è per le ricette che abbiamo sentito annunciare, che ci sembrano solo una somma di tagli lineari. Bisogna riformare la pubblica amministrazione, eliminare i doppioni? Siamo d’accordo. Bisogna intervenire sugli organici? Cominciamo a tagliare le consulenze, che valgono 1,5 miliardi, e non i ticket restaurant, che ne valgono 10 milioni. Ci sono grandi divari nelle retribuzioni? Paghiamo gli stipendi oltre una certa soglia in titoli pubblici. Eliminiamo le 3000 società che servono solo alla politica. Invece, si vuol ripetere l’errore della riforma delle pensioni: si taglia sui lavoratori pubblici per fare immediatamente cassa, generando altra iniquità e recessione».

Siete contrari alla mobilità in pensione dei pubblici dipendenti?

«Se serve solo per ottenere un certo risparmio – magari per poi sostituire i lavoratori con consulenti – se si vuole eliminare il personale degli appalti creando altra disoccupazione e incertezza, sarebbe incomprensibile. Avevamo fatto un accordo con il ministro Patroni Griffi, che apriva la strada a un confronto vero anche sulle piante organiche: che fine ha fatto?»

Si parla di deroghe alla riforma previdenziale, dunque.

«Vogliono creare altre divisioni tra pubblico e privato, e all’interno dei dipendenti pubblici, favorendo i dirigenti? La riforma previdenziale così com’è non regge, pian piano se ne accorge anche il governo. Non facciamo nuovi errori e nuove ingiustizie, non creiamo privilegiati e penalizzati con deroghe grandi e piccole. Qualcuno ha detto: “torniamo alle quote previdenziali”. Potrebbe essere un’idea interessante».

Ma i risparmi della spending review servono per evitare gli aumenti dell’Iva.

«Si dà per scontato che l’unico modo per fare cassa in Italia è prendersela con la massa del lavoro dipendente. E ogni volta, guardando alla distribuzione del reddito, si vede che c’è qualcun’altro che si arricchisce. Venti anni fa l’Irpef aveva aliquote dal 10 al 72%, adesso dal 23 al 43%».

E dal confronto con il governo cosa vi aspettate?

«Che si apra una discussione. Che si possano fare proposte di riforma della pubblica amministrazione. Che si lasci fuori istruzione e sanità. Che si mettano da parte i tagli lineari, sia pure con altro nome. Non nascondo il timore che il governo voglia ancora comunicarci decisioni già prese, e decisioni sbagliate. Se così fosse non potremmo che decidere come reagire».

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