Milano – Creativa, flessibile, a tratti geniale ma anche minuta e (troppo) sottocapitalizzata. In tempi di crisi infinita, con la politica che ammazza di tasse e burocrazia il blocco dei produttori, i limiti del nostro modello di impresa familiare emergono nella loro plastica drammaticità: 25mila imprese a rischio fallimento nel 2012, per 625mila posti di lavoro che potrebbero presto sfumare. Numeri da bollettino di guerra, più che da classico autunno caldo. Anche se il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, in serata fa il pompiere: «Certamente la crisi finanziaria più forte e lunga degli ultimi anni si sta facendo sentire sulle imprese italiane. Sono però convinto che il nostro tessuto imprenditoriale sia solido e il rischio di insolvenza limitato. Gli imprenditori italiani – prosegue Squinzi – continueranno a investire nelle loro aziende e a credere nel paese», mentre «il governo e le istituzioni finanziarie non faranno mancare il loro necessario supporto».
In realtà lo specifico «rischio insolvenza», denunciato dalla Banca centrale europea, non stupisce chi da anni lancia l’allarme sulla fragilità finanziaria delle nostre aziende formato mignon (in media 9 addetti contro i 36 della Germania e i 14 della Francia, dati Eurostat). Riassunta nel sempre efficace slogan: «famiglia ricca, impresa povera». Il nanismo ha infatti implicazioni dirette, tra le altre cose, sulla struttura finanziaria di chi intraprende. Secondo Prometeia le imprese tricolore fino a 10 milioni di fatturato dispongono di una capitalizzazione inferiore del 30% rispetto alle colleghe europee; quelle da 10 a 50 milioni del 20% e quelle da 50 a 150 milioni del 18%. Dalle crisi Olivetti e Montedison questa è una costante del nostro capitalismo: imprese che competono sui prodotti e nell’export ma finanziariamente troppo gracili.
«L’altra faccia della medaglia spiega Marco Mutinelli, docente di Gestione aziendale all’Università di Brescia e gestore della banca dati Reprint sull’internazionalizzazione – è che se non hai soldi tuoi, devi ricorrere strutturalmente di più allo sportello». In altre parole: se non hai equity da terzi perché la modernizzazione di Borsa non è riuscita a creare un mercato dei diritti di proprietà, inevitabilmente dipendi dalle banche, oggi in crisi di liquidità. Per questo il mix sottopatrimonializzazione, «bancocentrismo» e debito sta diventando pericoloso quanto più sei «piccolo», con l’economia italiana finita in una enorme trappola di liquidità: le banche che scaricano sui clienti le tensioni che subiscono dal lato del costo della raccolta, strette tra paletti patrimoniali imposti dall’Eba (l’autorità di vigilanza europea), urgenza di sostenere i titoli del debito pubblico, 130 miliardi di bond in scadenza nel prossimo anno e 100 miliardi di sofferenze scritte a bilancio; le imprese che a cascata si vedono tagliare i fidi, ridurre i castelletti, non scontare le fatture in ritardo, alzare gli spread e chiedere rientri improvvisi; e infine i ritardi di pagamento della Pubblica amministrazione e dei grandi gruppi privati verso fornitori e terzisti a dare la mazzata finale.
Il risultato è un cortocircuito in cui tutto si tiene. Lo dimostrano alcuni dati. Nel 2011, per Bankitalia, l’indebitamento delle aziende ha superato i 980 miliardi (+6,1% sul 2010). A giugno, sempre per Palazzo Koch, le insolvenze bancarie a carico delle imprese hanno superato i 75 miliardi, +17% sul 2011, quando sfioravano i 64 miliardi. Il 33% delle Pmi, secondo l’Istat, nell’ultimo anno ha visto diventare più onerose le condizioni di accesso al credito, il 12% se l’è visto negare e il 70% ha registrato almeno un insoluto di pagamento significativo che ha influito in maniera «molto» o «abbastanza» importante sugli equilibri finanziari societari. Una fragilità di fondo che in parte subisce e in parte alimenta una congiuntura di mercato depressa, consumi negativi, produzione industriale e Pil sottozero.
E si rischia di scavare ancora. Le simulazioni del Cer, Centro Europa Ricerche, descrivono per i prossimi mesi «uno scenario da vero credit crunch, sia sulla quantità di credito erogata sia sui tassi praticati dagli istituti». Si parla di 200 miliardi di minori impieghi al sistema produttivo nel consuntivo 2012. Le banche stanno infatti usando i soldi presi a prestito all’uno per cento dalla Bce (nel dicembre 2011 e nel febbraio 2012) per acquistare Bot, Cct e Btp (a maggio 2012 +92,8 miliardi) o fare provvista invece che girarli a famiglie e imprese, dando ossigeno all’economia reale.
Non basta. Secondo Prometeia nel corso dell’anno potrebbero fallire 25mila imprese, bruciando altri 625mila posti di lavoro. Si tratta di «fallimenti dovuti al combinato disposto del razionamento del credito e di una crisi generale dei mercati che mette sotto pressione tutto il nostro comparto manifatturiero», già provato da 4 anni di crisi.
E’ il rischio «moria» industriale di cui parlava l’altro giorno il ministro Fornero. Con effetti sui consumi interni (mezzo punto in meno nel 2012 e uno l’anno prossimo), sul Pil (un punto in meno all’anno per due anni) e sugli investimenti lordi delle aziende che scenderanno dell’11%. Rischiando di portare ulteriore disoccupazione, desertificare le nostre produzioni e interrompere il processo di selezione virtuosa avviato faticosamente con l’ingresso nella moneta unica.
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