Paolo Baroni
Roma – Gli ultimi dieci anni sono stati decisamente buttati via, ma anche il decennio precedente, gli Anni ‘90, compreso il passaggio all’euro e quello che ha significato per le imprese il calo del costo del denaro, non si può dire che sia stato sfruttato al meglio» sintetizza il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini. Che proprio in questi giorni sta completando un nuovo lavoro dedicato alla produttività, uno dei mali cronici del Paese come segnalava giovedì sulle colonne de la Stampa il ministro dello Sviluppo Corrado Passera.
Dati alla mano l’Italia è agli ultimi posti in Europa. «Negli ultimi dieci anni – spiega Giovannini anche in termini di produttività, siamo cresciuti molto meno della media europea. L’occupazione invece è cresciuta molto di più e questo è un dato da tenere ben presente perché significa che l’allargamento della torta è più il risultato dei nuovi occupati che di effettivi miglioramenti dell’efficienza.
Quel poco di aumento invece come l’abbiamo ottenuto?
«Con una crescita di occupazione nei settori ad elevata produttività. Però se si guarda all’insieme dei settori l’incremento è stato molto modesto. Negli anni 2000 abbiamo perso un’occasione per cambiare a fondo i nostri processi produttivi: come dice qualcuno abbiamo “bucato” la rivoluzione informatica. Abbiamo insomma sostituito le macchine da riscrivere coi pc, ma poi abbiamo continuato a produrre e lavorare come prima. Il problema si concentra in particolare in alcuni settori come il terziario (con costruzioni, attività immobiliari e attività professionali che hanno perso produttività) e poi nel manifatturiero, in particolare nelle imprese piccolissime ed in quelle grandi. Solo il settore delle comunicazioni e le banche, col processo di riorganizzazione che c’è stato, hanno sfruttato questa occasione. Addirittura anche la pubblica amministrazione è riuscita a fare passi avanti».
La dimensione di impresa conta?
«Posto che la produttività cresce col crescere della dimensione aziendale l’Italia, che ha una prevalenza di piccole imprese, ha ovviamente un problema in più. Perché a parità di altre condizioni abbiamo livelli di produttività mediamente più bassi. Questo fenomeno emerge in particolare nel settore manifatturiero dove abbiamo circa 500 mila imprese, molte più che negli altri paesi europei, con una incidenza molto molto più alta in particolare di microimprese, quelle con meno di 10 dipendenti. Nel 2000 la manifattura italiana aveva un gap rispetto agli altre grandi economie europee del 20% e nel 2007 addirittura del 25%».
Perché si è allargata questa forbice?
«Perché è cresciuto il peso delle piccole imprese, sia perché siamo molto specializzati in settori a più bassa produttività come il manifatturiero tradizionale. Un altro elemento che è venuto a mancare in quegli anni rispetto a Francia e Germania è stata la crescita di grandi imprese in settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo».
Le piccole e le medie imprese come sono andate?
«Hanno fatto meglio, ma non sono state in grado di compensare il calo delle micro e delle grandi imprese. A crescere di più sono state le imprese che esportano, quelle più aperte al confronto internazionale: le aziende più efficienti sono riuscite a vincere sui mercati internazionali, mentre le meno efficienti hanno perso posizioni. Poi c’è una terza categoria, fatta di imprese che producono per il mercato interno, che sono rimaste molto spiazzate dalle produzioni estere che hanno invaso i nostri mercati, penso in particolare al settore del mobile, i caso Ikea è emblematico, e poi la gomma, la carta».
Perché è successo tutto ciò?
«Le spiegazioni sono tante. La concertazione, che pure negli anni ‘90 ha consentito una forte disinflazione, proseguita negli anni 2000 ha consentito a molte imprese di fare profitti in modo relativamente semplice perchè mancava la pressione del costo del lavoro. E così siamo finiti in una trappola di sottocapitalizzazione, aumento dell’occupazione e bassi salari. La seconda possibile interpretazione è legata alla inefficienza di molti mercati, dovuta alle poche liberalizzazioni che ci sono state. Poi c’è un terzo aspetto da considerare, che è quello legato all’evasione ed al sommerso. Perchè è chiaro che se un’imprenditore ha i margini per evadere può essere relativamente soddisfatto della sua attività e non cerca margini di miglioramento, galleggia e non cerca una maggiore produttività. Però attenzione che se per magia si potesse far sparire di colpo l’evasione, in un primo momento dovremmo scontare chiusure e forti perdite di posti di lavoro e solo una seconda fase ci sarebbe un recupero per effetto degli spazi di mercati rimasti liberi».
Dimensione di impresa, posizionamento sui mercati, specializzazione delle produzioni, maggiore apertura dei mercati, lotta all’evasione, alla vigilia degli incontro tra governi e parti sociali, dunque sono queste i punti su cui intervenire per invertire la rotta?
«Sì, ma deve essere chiara una cosa: l’aumento della produttività non si fa a palazzo Chigi o a Montecitorio. Si fa sui luoghi di lavoro con una attenzione continua e puntigliosa a migliorare l’efficienza complessiva di un processo produttivo. Misure che aumentano il capitale umano o la flessibilità sono utili, ma sono soltanto delle precondizioni».
Copyright © La Stampa. All rights reserved
*************************************************************************
Roma – Giù il pil e giù la produttività, sia quella totale che quella del lavoro. La fotografia dell’azienda Italia che emerge dalle statistiche ufficiali è oltremodo sconsolante. Nel periodo 2001-2010 la crescita del Pil in Italia è stata complessivamente del 4,1%: si tratta certifica l’Istat dopo la revisione delle stime di fine 2011, del risultato più modesto tra tutte le economie europee. Basti pensare che l’insieme dell’Unione europea a 27, nello stesso periodo, ha messo a segno una crescita del 14%: +11,9% la Germania, +12,1 la Francia addirittura +17,1 il Regno Unito e +22,6% la Spagna. «Dieci anni sprecati», sintetizza giustamente il presidente dell’Istat Giovannini.
Quasi ovunque, rilevano le statistiche, la crisi del 2008-2009 ha avuto l’effetto di ridurre la crescita complessiva a confronto con il periodo 2001-2007: la contrazione è stata particolarmente rilevante per economie cresciute in maniera significativa negli anni precedenti come i paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), ma anche per Irlanda e Grecia. Ed è stata pesantissima per l’Italia: nel nostro paese, già in fondo alla classifica di crescita insieme al Portogallo, «si è avuta un’erosione di oltre la metà dei progressi realizzati dal 2000: 6,1 punti percentuali nel biennio 2008-2009, e 4,7 punti tenendo in conto anche il recupero del 2010».
L’Italia è in fondo alla graduatoria europea anche per la crescita della produttività oraria del lavoro, che nel 2010 era solo l’1,4% più elevata rispetto al picco del 2000, mentre nell’Ue27 era salita dell’11,4% (+13,6% in Germania e +10,4 in Spagna).
Se si allarga lo sguardo all’intero decennio scorso il confronto con i nostri partner resta sempre impietoso: per l’intero periodo 2001-2010, la performance dell’Italia è stata infatti pari a circa 1/3 rispetto a quella franco-tedesca per la dinamica del valore aggiunto e ad appena il 12-15% se si considera il contributo della produttività, entrambi gli andamenti risultano ancora inferiori rispetto a Regno Unito e Spagna. La crescita del 2,7% dell’immissione di nuova forza lavoro, «l’input» come lo chiamano gli esperti, all’opposto, è risultata seconda solo a quella della Spagna, e a questa è corrisposto un calo delle ore medie lavorate (per effetto dello spostamento dell’economia verso attività e prestazioni ad orario ridotto) superiore rispetto a tutte le economie considerate. Per questo, l’occupazione è cresciuta di ben il 7,5%, contro il 3% in Germania, il 5,1% in Francia e il 5,7% nel Regno Unito.
Non è un caso dunque se il ministro dello Sviluppo e l’intero governo hanno messo ai primi posti nella loro agenda i temi della crescita e della competitività. Un tema che a partire dal primo incontro di dopodomani tra governo e imprese sarà il vero banco di prova della ripresa autunnale. «Si sono persi inutilmente nove mesi di tempo» annotava ieri con una punta d’amarezza il leader della Uil Angeletti.
Nel periodo pre-crisi, la distanza dell’Italia rispetto a Francia e Germania in termini di crescita economica non era ancora notevole (tra il 30 e il 40%), mentre la crescita dell’input di lavoro è stata addirittura pari al 7,2%, contro valori inferiori al 3 e 4% in Francia e nel Regno Unito, e una contrazione di oltre il 2% in Germania; la crescita della produttività, di riflesso, già in questo periodo è stata molto modesta. Come in Italia, anche in Spagna quasi tutta la crescita in questo periodo è stata ottenuta attraverso l’allargamento della base occupazionale. Di recupero di efficienza neanche a parlarne. E non è un caso dunque se la nostra economia è ancora in recessione e tutte le stime per il prossimo anno convergono un un dato decisamente non positivo: ancora 12 mesi a crescita zero.
Copyright © La Stampa. All rights reserved