ROMA (WSI) – I tempi della democrazia e della politica mal sopportano vincoli esterni, sia quelli che derivano dai nostri impegni europei, sia quelli imposti da chi possiede i titoli del nostro debito pubblico. L’apparente tranquillità dei mesi recenti può indurre nell’errore di farci sentire liberi di decidere, di muoverci nella direzione in cui ci porta la navicella del fragile equilibrio politico. Non è così.
La soluzione adottata per salvare le banche di Cipro potrebbe cambiare il modo in cui d’ora in avanti verranno affrontate le crisi bancarie nell’area euro. Tre anni fa le banche irlandesi furono salvate facendo pagare un conto salatissimo ai contribuenti e proteggendo tutti i depositanti (grandi e piccoli) e chi ne aveva acquistato le obbligazioni. A Cipro invece lo Stato non interverrà: i 10 miliardi di euro che l’isola riceverà dall’Europa non potranno essere usati per salvare le banche. Le loro perdite verranno assorbite da chi vi aveva investito, acquistandone azioni, obbligazioni o aprendo un conto corrente. Verranno salvati solo i depositi di ammontare inferiore ai 100 mila euro.
Questa decisione ha due conseguenze:
1) da oggi rafforzare il patrimonio delle banche (il tallone d’Achille del sistema finanziario europeo) è più difficile, perché chi ne acquista le azioni o le obbligazioni deve affrontare un rischio maggiore;
2) una parte dell’attività bancaria potrebbe emigrare verso i Paesi le cui banche sono più solide.
È vero che i piccoli depositanti sono salvi (a meno di imposte speciali sulla ricchezza), ma le imprese e i grandi investitori fanno e ricevono pagamenti che spesso superano il limite di 100 mila euro. Molti di essi d’ora in poi saranno tentati di effettuarli con banche di Paesi dove non si rischia una parziale confisca dei depositi. Questo potrebbe creare un circolo vizioso e indebolire ancor più le banche.
Per noi sono tutte cattive notizie. Uno degli ostacoli alla crescita, nel breve termine forse il maggiore, è la scarsità di capitale di cui dispongono le banche. Il motivo principale per cui esse lesinano il credito è che hanno troppo poco capitale. Hanno molta liquidità, grazie ai finanziamenti della Bce, ma per fare un prestito e sostenere l’economia la liquidità non basta, serve anche il capitale, cioè la riserva che la banca deve mettere da parte per far fronte a prestiti non rimborsati. E oggi nella recessione ciò accade sempre più spesso. Le banche italiane tradizionalmente hanno sempre avuto relativamente poco capitale: uno dei motivi è che i loro padroni, le fondazioni bancarie, hanno risorse limitate, ma non vogliono perdere il controllo delle banche, quindi scoraggiano gli aumenti di capitale sul mercato.
L’altra conseguenza della crisi di Cipro è che le parole oggi contano di più. Gli investitori saranno ora attentissimi a qualunque proposta di tassare i depositi bancari, o di ristrutturare il debito, come fece Mussolini nel 1926, o di rinegoziare gli impegni presi con l’Europa, o addirittura di considerare un’uscita dall’euro. In questo momento così delicato, non solo le azioni ma anche le parole pesano, e nel mezzo di una crisi politica fra le più difficili del dopoguerra, di parole senza senso se ne ascoltano parecchie.
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