MILANO (WSI) – Nel dicembre del 2011, nel decreto Salva Italia, fu introdotto un meccanismo, chiamato ACE (Aiuti alla crescita economica), finalizzato a premiare le imprese che, già dal periodo di imposta 2011, avrebbero effettuato operazioni di ricapitalizzazione, ossia che si sarebbero dotate di maggiori capitali propri.
A quei tempi, la stampa sussidiata, presentò l’innovazione introdotta dal Ministro Passera come un’iniziativa che avrebbe stimolato, e di molto, le operazioni di aumento di capitale da parte delle società, proprio grazie ai benefici fiscali previsti dalla normativa.
Dotare le imprese di maggiori capitali, equivale a diminuire la dipendenza delle stesse imprese dal mondo bancario, sempre agonizzante e perciò avverso alla concessione di linee di credito alle sistema delle imprese. E’ chiaro che un imprenditore che capitalizza la propria impresa non dovrebbe certo farlo per un incentivo fiscale, ma per il semplice motivo che, avere un’azienda adeguatamente capitalizzata, oltre a diminuire la dipendenza dal mondo bancario, favorisce la realizzazione di economie in termini di interessi passivi, e costituisce un ottimo biglietto da visita per affacciarsi sul mercato, che chiaramente apprezzerà maggiormente aziende adeguatamene patrimonializzate, ritenendole più affidabili rispetto ad altre dotate di esegui capitali.
Ad ogni buon conto, lo spirito della normativa è proprio quello di ridurre lo squilibrio tuttora esistente fra un finanziamento con capitale di debito e con capitale proprio, introducendo un beneficio che si sostanzia in una deduzione dal reddito imponibile del rendimento figurativo degli apporti di capitale.
Tant’è che nella relazione illustrativa del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 14 marzo 2012, di attuazione della nuova disciplina, in cui si legge: “l’obiettivo perseguito con l’ACE, tenendo conto delle esigenze di rafforzamento dell’apparato produttivo del sistema Paese, è quello di incentivare la capitalizzazione delle imprese mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio. Si tratta di una misura di riequilibrio, nel senso che l’ACE intende migliorare il trattamento di sfavore del capitale di rischio rispetto al capitale di terzi”.
Quindi è un incentivo, di natura fiscale, riservato ai soli titolari di reddito di impresa, al fine di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita, agevolando le imprese che rafforzano la propria struttura patrimoniale mediante una riduzione della imposizione sui redditi.
Ma tanto per offrirvi l’idea di quanto sia inadeguato tale incentivo e quanto siano distanti le posizioni dei governi dalle reali esigenze delle imprese e, più in generale, dell’economia, giova scendere nei numeri al fine di comprendere di cosa stiamo parlando.
Al netto dei meccanismi perversi di determinazione di questo incentivo, esemplificando, in estrema sintesi, ipotizzando che tra la fine del 2011 e la fine del 2012 il patrimonio di una società si sia incrementato di 100.000 euro per effetto di un conferimento in denaro effettuato il 01/07/2012, la società, per effetto dell’applicazione di un coefficiente di rendimento nozionale posto dal legislatore al 3%, potrà portare in deduzione del reddito di impresa la somma di euro 1510, con un agevolazione di imposta di appena 415 euro. Una vera banalità, insomma.
Se da un lato può essere condivisa la necessità di stimolare le imprese affinché vengano dotate di maggiori capitali tali da migliorare lo squilibrio esistente tra l’utilizzo di mezzi propri e di terzi, appare del tutto irragionevole pensare come possa costituire un Aiuto alla Crescita Economica, un incentivo fiscale di proporzioni così limitate che non consente affatto di superare neanche lontanamente le difficoltà del sistema imprese prossimo al collasso.
La verità è che di soldi non ce ne sono e, verosimilmente, permanendo le condizioni attuali, continueranno a non essercene per un lungo periodo. Le imprese dovrebbero capitalizzarsi e quindi svilupparsi, non grazie ad un incentivo ridicolo pensato da un branco di incompetenti, ma solo operando in un contesto “ambientale” più favorevole per fare impresa.
Sarebbe del tutto assurdo pensare che oggi un imprenditore sia disponibile ad investire risorse nella propria impresa, quando egli conosce benissimo che, a distanza di poco tempo, queste risorse, verosimilmente, potrebbero essere del tutto vaporizzate, sia per effetto della crisi, che per una pretesa tributaria che, presto o tardi, aggredirà anche i nuovi capitali investiti, erodendoli.
Chi parla di riduzione della tassazione per puro spot da dare in pasto ad un paese ricco di analfabeti economici, oltre ad esprimere una malafede conclamata con l’aggravante della recidività, non immagina minimamente le reali condizioni in cui versa il paese, con il suo sistema di piccole imprese che rischia di essere definitivamente abbattuto, strozzato da un groviglio impressionante di adempimenti burocratici appositamente pensati per occupare un numero impressionante di fannulloni burocrati che campano sulla spalle di chi produce ricchezza e genera lavoro.
Le imprese stanno subendo una pretesa tributaria irragionevole, illogica, distruttiva con connotati di profonda illegittimità. E gli imprenditori conoscono perfettamente i limiti alla sopravvivenza della propria impresa e, sapendo che questa presto potrebbe conoscere il trapasso, perché mai dovrebbero buttare i soldi in un pozzo senza fondo? Tanto vale essere onesti e dire che, le imprese, finché ce la faranno, dovranno cavarsela da sole. Ammesso che ci riescano.
Se andassimo a verificare il tessuto della normativa fiscale sul quale lo Stato fonda la sua pretesa tributaria, ci accorgeremmo subito che è una normativa degna di uno stato fallito, quale è l’Italia. Oltre al tema del livello della pressione fiscale, che non ha eguali nel contesto mondiale, subito ci accorgeremmo che l’impianto normativo è una raccolta di norme per nulla omogenee, disorganiche, talvolta contraddittorie e per nulla attinenti allo sviluppo del contesto economico e sociale intervenuto nel paese nell’ultimo trentennio.
In pratica, sono norme appiccicate l’una alle altre, senza alcuna soluzione di continuità e formulate non in base ad una visione strategica della società, dell’economia e più in generale della nazione, ma dallo stato di necessità delle finanze pubbliche, che negli ultimi decenni, sostanzialmente, hanno sempre espresso crescenti necessità di flussi finanziari (tasse) fino ad arrivare, negli ultimi anni, a toccare il punto di non ritorno.
In pratica, il (non) senso osservato dal legislatore in questo lungo periodo, sostanzialmente, è stato questo: mancano dei soldi? Bene, procediamo inasprendo la pressione fiscale e facciamo cassa con l’introduzione di nuove imposte o, molto più semplicemente, inasprendo quelle già esistenti.
Questo, in buona sostanza è stato il criterio ispiratore di tutte le manovre fiscali che si sono varate in quasi un trentennio, trascurando del tutto gli effetti nefasti che questo modus operandi avrebbe prodotto.
Ecco quindi che sono state introdotte un numero elevatissimo di imposte, tributi e adempimenti, proprio al fine di colpire nuova materia imponibile e, talune imposte, sono delle vere e proprie stranezze.
Una normativa fiscale in perpetuo mutamento, oltre a disorientare il contribuente ed esporlo ad una crescente possibilità di cadere nell’errore, sempre pronto ad essere sanzionato, compromette anche la possibilità da parte degli operatori economici, di effettuare una pianificazione fiscale delle proprie attività scoraggiando gli investimenti.
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