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Gli infiniti sprechi del Ponte sullo Stretto di Messina

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ROMA (WSI) – Correva l’anno 1980: l’Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall’assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti.

Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l’unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un’altra occupazione da qui alla pensione. L’ex capo di gabinetto del ministero dell’Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall’Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia.

La vicenda del ponte sullo Stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini. Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell’inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell’opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi.

E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l’ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all’Unione Europea.

È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l’hanno accompagnata. Ma con l’ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto. Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell’opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere.

La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c’è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore. Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d’impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti.

Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell’opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all’inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l’opera venga cassata. Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate.

La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l’Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Il Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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