MILANO (WSI) – Euro. Quando l’euro si indebolisce, come nelle ultime tre settimane, si ripresenta puntuale il dubbio se comprarlo o venderlo, in particolare contro il dollaro. Il problema nasce perché l’euro, unica tra le grandi valute, ha uno statuto ontologico molto precario, nel senso che oggi c’è e un domani potrebbe anche non esserci, in particolare per gli abitanti del mezzogiorno europeo.
Una valuta normale, come ad esempio il dollaro australiano, sale e scende per ragioni fondamentali, come il prezzo delle materie prime, ma chi ha comprato nel momento sbagliato può attendere, se lo vuole, che il ciclo si giri a suo favore, nella certezza che l’Australia avrà una sua valuta ancora per decenni e forse secoli. Le discese dell’euro, invece, coincidono spesso con fasi di crisi esistenziale di questo o quel paese e quindi dell’Europa intera. Comprare euro, in questi casi, rischia di assomigliare al proverbiale tentativo di afferrare un coltello che cade. Come corollario il dollaro, per un europeo, assume una doppia natura. Da una parte è una valuta normale, soggetta alle fluttuazioni legate ai fondamentali, dall’altra è un bene rifugio, uno store of value, ovvero qualcosa che custodisce valore anche in tempi eventualmente calamitosi.
Nella discesa recente, che ha visto il cambio con il dollaro passare rapidamente da 1.34 a 1.2760, si è intravista di nuovo l’ombra nera della crisi esistenziale. In un’Europa politicamente così fragile la crisi portoghese è stata sufficiente a evocare per qualche momento la reazione a catena e l’implosione del continente. Per fare un paragone, quando in America il governatore del Wisconsin, l’anno scorso, è stato oggetto di impeachment nell’ambito di una crisi politica che ha visto perfino una specie di parlamento alternativo riunirsi fuori dai confini dello stato, nessuno, in Europa, se ne è accorto e nessuno ha venduto dollari pensando alla possibile fine degli Stati Uniti e della loro valuta.
Per fortuna la crisi portoghese si è rivelata ben presto per quello che è stata, un temporale estivo scatenato da un piccolo partito indispettito per la perdita di una posizione importante nel governo. La posizione è stata ripristinata e la crisi è rientrata. Per mediare non si è nemmeno scomodata la Merkel, è bastato Schauble.
Questa volta, quindi, si può escludere che la debolezza dell’euro sia dovuta a una crisi esistenziale. L’euro può dunque essere trattato come una valuta normale, andando cioè a vedere i suoi fondamentali. Questi ci dicono, secondo le ultime stime del Fondo Monetario, che Eurolandia rimarrà in recessione quest’anno e che avrà una debole ripresa nel 2014. Se si osservano le stime con la lente d’ingrandimento si scopre però che la ripresa non sarà così debole. Il quarto trimestre del 2014 vedrà infatti un Pil dell’1.1 per cento superiore a quello del quarto trimestre del 2013.
Misurata in questo modo (Q4 su Q4 e non anno su anno) la crescita italiana sarà dell’1.4 per cento. Niente di trascendentale, per carità, ma sufficiente ad arrestare per i prossimi 12-18 mesi il deterioramento di consenso intorno all’idea di Europa e quindi il rischio di crisi esistenziale.
I rapporti di cambio tengono certamente conto delle prospettive di crescita (che saranno ancora più favorevoli per gli Stati Uniti) ma anche della bilancia delle partite correnti. Negli anni passati ci siamo abituati agli Stati Uniti in disavanzo e a Cina e Giappone in surplus. L’Europa era in pareggio, con Germania e Olanda in surplus che compensavano da sole il passivo di tutti gli altri.
Il mondo è cambiato e continuerà a cambiare. La Cina è destinata a consumare (e quindi importare) sempre di più e il suo surplus, fino a due anni fa spettacolare, si è già ridotto e scomparirà del tutto dal 2016. Il Giappone, che ha spento le sue centrali nucleari, importa gas e petrolio ed è già oggi in passivo commerciale. Gli Stati Uniti manterranno il loro 3 per cento di disavanzo a perdita d’occhio. E l’Europa? Grazie alla caduta dei consumi già da oggi i paesi in crisi sono tornati in pareggio e alcuni di loro, come il Portogallo, sono addirittura in surplus. Eurolandia nel suo complesso, quindi, riuscirà ad allineare l’anno prossimo una lunga serie di paesi virtuosi e perfino la riottosa Francia sarà in pareggio.
Nel suo insieme Eurolandia sarà in surplus (del 2 per cento) per tutta la parte restante del decennio. Non una Germania che si europeizza consumando di più, ma un’Europa che si germanizza consumando di meno.
Chi è in surplus, da manuale, è destinato a rivalutare, non a svalutare. L’Europa, che vista da fuori assomiglia ogni tanto a una polveriera, può certamente convincere America e Asia a lasciare che l’euro sia tendenzialmente debole, ma fino a un certo punto. Per questo, se l’euro dovesse nei prossimi mesi indebolirsi nuovamente sotto 1.28, i buoni vecchi dollari che dovrebbero essere presenti in qualsiasi portafoglio diversificato e prudente andrebbero sostituiti gradualmente e con la dovuta cautela con pericolosi euro.
Petrolio. Ci avevano spiegato, più o meno un mese fa, che il ciclo positivo delle materie era inesorabilmente terminato e che un lungo bear market ci avrebbe accompagnato nei prossimi anni. La Cina è cotta, era il concetto, e bene che vada crescerà nei servizi, non certo nelle case e nelle cose, di cui è ormai satura.
Da allora, con l’eccezione del rame e di poco altro, è stato tutto un gran rialzo. Perfino quelli che erano considerati malati terminali, il minerale di ferro e i preziosi, sono tornati a dare segni di vitalità. Quella che dà però da pensare è la più importante tra le materie prime, il petrolio, che nellaversione internazionale Brent è salito del 7 per cento e in quella americana Wti addirittura del 14 per cento.
Ma come, l’America non era piena di greggio, di gas naturale e di carbone? Non era forse nella felice situazione di non sapere letteralmente dove mettere tutta questa grazia? Lo era, non lo è più. Non nel senso che la produzione sia diminuita, ma nel senso che nell’enorme caos che era diventato il mondo dell’energia negli Stati Uniti si sta finalmente e velocemente mettendo ordine. L’ordine non arriva da Washington, ma dal mercato, che sta funzionando in modo spettacolare.
Facciamo un passo indietro. Prima della rivoluzione del petrolio e del gas non convenzionali gli Stati Uniti erano un paese importatore. Il greggio arrivava dal Golfo Persico e dall’Africa e sbarcava sulla costa del Texas e della Louisiana. Da qui veniva in parte raffinato e poi spedito nel centro geografico degli Stati Uniti, a Cushing, dove c’erano chilometri di depositi dai quali il petrolio veniva poi redistribuito in tutto il paese. Tutta l’infrastruttura, costruita nei decenni, funzionava insomma da sud a nord.
Negli anni scorsi sono arrivati, in rapida sequenza, il petrolio da scisti dell’Alberta, quello del Dakota e quello di due importanti bacini texani. Tutta questa produzione crescente è stata inviata fortunosamente (spesso in treno) a Cushing, fino a farla scoppiare. I depositi, essendo al limite, si sono messi ad accettare solo la produzione più a buon mercato. Il petrolio Wti è così sceso a un livello di 25 dollari sotto il Brent.
Come sa ogni arbitraggista, un dislivello di 25 dollari tra un barile a Cushing e uno di Brent a Houston è succulento al di là di ogni immaginazione. In pochi mesi, grazie a un mercato molto libero ed efficiente, questi 25 dollari hanno creato un’infrastruttura completamente nuova di oleodotti, orientata questa volta da nord a sud. Il petrolio ora non viene più importato dall’estero e le raffinerie del Texas, invece di riceverlo dalle navi che sbarcano, lo prelevano direttamente da Cushing, che si sta velocemente svuotando. Fra poche settimane tutti i prezzi del mondo saranno perfettamente arbitraggiati, ovvero uguali, fatte salve le differenze di qualità e i costi di trasporto.
Per il momento l’arbitraggio ha funzionato verso l’alto, il Wti è cioè salito al livello del Brent. Questo è avvenuto nel timore che i fondamentalisti egiziani riescano in qualche modo a bloccare il Canale di Suez. È un’ipotesi che ci pare molto improbabile, visti i livelli di mobilitazione dell’esercito egiziano nella zona del Canale. Non appena la situazione egiziana comincerà ad apparire meno pericolosa, tutti i prezzi mondiali di greggio scenderanno insieme. In pratica, i benefici del boom energetico americano si spalmeranno a livello globale. Un’ottima notizia.
Bond e inflazione. Dopo i minimi dell’inflazione e la svolta della Fed di un mese fa, che hanno avuto come effetto un brusco aumento dei tassi reali sui bond, sono circolate ampiamente tre tesi. La prima è che l’inflazione rimarrà eccezionalmente bassa e forse scenderà ancora. La seconda è che i bond continueranno a scendere di prezzo e salire di rendimento. La terza è che l’oro continuerà a perdere valore.
La prima tesi è stata sostenuta dai deflazionisti, che mettono insieme la stagnazione europea, la crisi cinese e sudamericana e la debolezza della crescita negli Stati Uniti per sostenere che il Qe si appresta a finire nel momento peggiore, lasciando pericolosamente scoperto il mondo sul versante della ricaduta nella recessione. A noi sembra in realtà che l’inflazione sia vicina ai minimi. Livelli ancora più bassi indurrebbero infatti le banche centrali a riprendere il Qe, se possibile in forma ancora più aggressiva. Dell’Europa abbiamo parlato sopra. Quanto alla Cina, la stretta attuale non durerà a lungo.
Quanto ai bond, che i deflazionisti comprerebbero su debolezza e tutti gli altri raccomandano di vendere, ci piace l’idea di un bear market morbido nei prossimi due anni. Vendere bond su forza e comprare borsa su debolezza appare la strategia migliore.
L’oro, infine, per quanto circondato da un sentiment vivacemente negativo, non ci sembra così pronto a precipitare. Siamo vicini ai costi di produzione e l’espansione della base monetaria, destinata a rallentare in America, potrebbe riaccelerare in Europa con un nuovo Ltro. L’oro è soggetto alle mode e andrebbe considerato più come diversificazione che come speculazione. I livelli attuali, in una prospettiva a cinque anni, potrebbero cominciare a essere interessanti.
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