ROMA (WSI) – Qualche giorno fa il Premier Enrico Letta ha affermato: “Se ci si chiede perché l’Italia è un Paese poco competitivo, rispondo perché l’economia in nero è così quantitativamente importante. Distorce la concorrenza e crea inefficienza… Nel nostro Paese le tasse sono troppo alte perché non tutti le pagano”.
Insomma, il messaggio che si vuol far passare è quello che l’Italia fallisce per colpa dell’evasione. A parte il fatto che esistono numerosi studi che tendono a smentire -almeno parzialmente- le affermazioni del Premier a proposito della carente competitività legata ai fenomeni evasivi, di seguito vorrei proporvi la mia opinione sul tema fisco ed evasione fiscale, enunciandovi quelle che sono le criticità che determinano (o per meglio dire stimolano) l’evasione fiscale.
Più volte abbiamo discusso dell’oppressione fiscale di questo Paese, sia in termini di procedure di contrasto all’evasione, che di livello della pressione fiscale. Elementi, questi, che contribuiscono a rendere l’Italia uno dei paesi meno competitivi a livello planetario e che, ritengo, siano propedeutici al fallimento che stiamo vivendo. In effetti, se andassimo a verificare il tessuto della normativa fiscale sul quale lo Stato pone la sua pretesa tributaria, ci accorgeremmo subito che è una normativa degna di uno stato fallito, quale è l’Italia. Oltre al tema del livello della pressione fiscale che non ha eguali nel contesto mondiale, subito ci accorgeremmo che l’impianto normativo è una raccolta di norme per nulla omogenee, disorganiche, talvolta contraddittorie e per nulla attinenti allo sviluppo del contesto economico e sociale intervenuto nel paese nell’ultimo trentennio. In pratica, sono norme appiccicate l’una alle altre, senza alcuna soluzione di continuità e formulate non in base ad una visione strategica della società, dell’economia e più in generale della nazione; ma dallo stato di necessità delle finanze pubbliche, che negli ultimi decenni, sostanzialmente, hanno sempre espresso crescenti necessità di flussi finanziari (tasse) fino ad arrivare, negli ultimi anni, a toccare il punto di non ritorno.
In pratica, il (non) senso osservato dal legislatore in questo lungo periodo, sostanzialmente, è stato questo: mancano dei soldi? Bene, procediamo inasprendo la pressione fiscale e facciamo cassa con l’introduzione di nuove imposte o, molto più semplicemente, inasprendo quelle già esistenti. Questo, in buona sostanza è stato il criterio ispiratore di tutte le manovre fiscali che si sono varate in quasi un trentennio, trascurando del tutto gli effetti nefasti che questo modus operandi avrebbe prodotto.
Ecco quindi che sono state introdotte un numero elevatissimo di imposte, tributi e adempimenti, proprio al fine di colpire nuova materia imponibili e, talune imposte, sono delle vere e proprie stranezze. Un normativa fiscale in perpetuo mutamento, oltre a disorientare il contribuente ed esporlo ad una crescente possibilità di cadere nell’errore, sempre pronto ad essere sanzionato, compromette anche la possibilità da parte degli operatori economici di effettuare una pianificazione fiscale delle proprie attività scoraggiando gli investimenti. Nell’ultimo periodo, ne costituisce un esempio clamoroso l’atteggiamento adottato dal legislatore nel limitare la deducibilità dei costi attinenti ai veicoli aziendali, che è passata dal 50% di pochi anni fa, al 20% attuale.
In questo caso, tale limitazione è stata introdotta senza alcun criterio logico e tantomeno pertinente con il reale utilizzo delle autovetture all’interno dell’azienda, con il solo fine di limitare la possibilità di dedurre costi (delle autovetture, in questo caso) e quindi avere maggiore materia imponibile da colpire. Trascurando il fatto che una minore possibilità di dedurre il costo delle autovetture, si traduce anche in un disincentivo all’acquisto di tali beni, rischiando di soffocare un mercato già in agonia, vale la pena segnalare che questo non è l’unico esempio al quale possiamo far riferimento. Ritornando al nostro ragionamento, introdurre un numero elevatissimo di imposte, significa anche dover produrre altrettanti adempimenti amministrativi a carico di quei soggetti obbligati al pagamento dei tributi: ossia le imprese e le famiglie. Quindi, questi, oltre a patire l’impatto vessatorio dei tributi pretesi dalla stato, subiscono anche un aggravio di costi amministrativi sia per la determinazione delle imposte da pagare, sia per la gestione amministrativa del rapporto fisco contribuente, che si sostanzia in un numero sempre crescente di adempimenti dichiarativi da svolgere e di comunicazione talvolta al limite del ridicolo. Da questo punto di vista, in definitiva, possiamo affermare che si è arrivati ad un livello insostenibile di prelievo fiscale e con essa anche ad livelli altrettanto alti di adempimenti fiscali e amministrativi, proprio al fine di offrire alle casse dello stato un gettito sempre crescente e apparentemente idoneo al mantenimento di una apparato statale degno di uno stato Bolscevico.
Per contro, gli effetti nefasti della crescente pressione fiscale, non sono stati affatto compensati con l’erogazione di servizi di crescente qualità (scuola, sanità, strade, infrastrutture, servizi sociali, burocrazia ecc. ecc.). Anzi, potremmo agevolmente affermare l’esatto contrario, vista la pessima qualità con la quale lo Stato, il più delle volte, eroga i servizi alla popolazione. L’evasione fiscale a cui e si sta giustamente dichiarando guerra, trova terreno fertile proprio in un quadro normativo di questo genere che, a parer di chi scrive, dovrebbe essere profondamente riformato e reso sinergico ed aderente alle mutate condizioni economiche, sociali e culturali intervenute nel corso di questi anni, senza dimenticare la proiezione strategica della nazione per i prossimi 20/30 anni o forse più.
Ecco quindi la necessità di dover adottare un impianto normativo stabile, facilmente comprensibile, che consenta di tagliare il numero degli adempimenti e instaurando un rapporto di fiducia tra il Fisco e il contribuente, ormai venuto meno, e rimuovere l’ostilità dilagante nei rapporti tra gli organi preposti alla pretesa tributaria e il cittadino, creando anche le condizioni per un maggior senso civico. Questo, unitamente ad una preventiva diminuzione della spesa pubblica, e riducendo in maniera sistematica e ragionevole la pressione fiscale tramite un preventivo calo dell’inefficienza pubblica, consentirebbe anche una sistematica riduzione della pressione fiscale, posizionandola verso livelli di maggiore sostenibilità.
Semmai ce ne fosse bisogno, giova ricordare che ad indignare il contribuente e a stimolare l’infedeltà fiscale, contribuisce anche lo squallore di cui la nostra classe politica si rende quotidianamente protagonista.
Le cronache giornaliere ci raccontano di ruberie, tangenti, corruzione e privilegi sfrenati; di abusi e soprusi, perpetrati da una casta di potere che trae, più o meno indirettamente, vantaggio dalla spremitura fiscale di chi lavora onestamente e produce e crea ricchezza. Comportamenti che, oltre ad incorporare elementi di criminalità, non offrendo esempio di onestà e di sobrietà, risultano in netto contrasto con il ruolo esemplare a cui i nostri miserabili politici dovrebbero naturalmente confermarsi.
Senza poi considerare le migliaia di opere pubbliche presenti nel nostro paese, avviate, la maggior parte delle volte, per esigenze clientelari e poi neanche concluse. Opere che raccontano di storie di tangenti, di corruzione, di criminalità, di mafie e del malaffare diffuso al servizio della politica per comprare consensi elettorali. Miliardi di euro andati letteralmente in fumo.
E’ evidente che ogni contribuente, trovandosi dinanzi a un simile scempio e a tanto spreco, si interroghi sull’opportunità o meno di pagare tasse proibitive, sapendo dell’uso che verrà fatto dei propri sacrifici.
L’anatema secondo il quale un abbattimento della soglia di utilizzo del contante nelle transazioni commerciali, o addirittura, la totale eliminazione, possa costituire elemento idoneo a contrastare l’evasione fiscale, costituisce un vero e proprio veicolo propagandistico con il quale i politici tendono ad occultare i propri insuccessi.
Il messaggio che si vuole offrire è quello di ribaltare le responsabilità del fallimento di questa politica che sta conducendo la nazione in bancarotta, proprio sul contribuente presunto evasore. L’Italia fallisce per colpa degli evasori. In buona sostanza è proprio questo il senso di tanti spot propagandistici.
Quando si parla di fenomeni evasivi, erroneamente, si tende a riferirsi all’evasione posta in essere dal piccolo commerciante che non emetterebbe lo scontrino fiscale. Noi non vogliamo asserire che ciò non sia vero e che non costituisca un problema. Ma giova ricordare che per effetto dell’applicazione degli studi di settore, un ampia platea di imprese di piccole e medi dimensione (sommariamente quelle che il fisco individua con fatturati fino a 7,5 milioni di euro, oltre ad altri parametri) determinano il proprio reddito prescindendo dall’effettiva realizzazione.
In pratica, tramite questi strumenti statistici che propongono livelli di redditività di un’azienda in base a numerosi parametri di riferimento, il fisco stabilisce quali debbano essere i ricavi ritenuti “congrui e coerenti” per una determinata tipologia di attività, a prescindere dal fatto che i ricavi individuati da tale strumento statistico, siano stati o meno realmente utilizzati. In buona sostanza, un imprenditore, durante il periodo di imposta, potrebbe porre in essere pratiche evasive, salvo poi dover comunque dichiarare ricavi ufficialmente non realizzati, vanificando quindi gli sforzi e i rischi corsi per occultare ricavi al fisco.
In altre parole, semplificando, non avrebbe senso evadere le tasse non emettendo scontrini fiscali se poi, in sede di dichiarazione dei redditi, si devono dichiarare anche ricavi non realizzati. Se il problema, come pare, fosse proprio questo, se ne dedurrebbe che lo strumento di accertamento fiscale d’eccellenza utilizzato dal fisco in questi anni, ossia lo studio di settore, è uno strumento del tutto arbitrario che non riesce a cogliere l’effettivo livello di ricavi di un impresa. Quindi uno strumento e un metodo di accertamento del tutto inattendibile, al punto da non contrastare l’evasione fiscale. Allora perché continuare ad utilizzarlo e a fondarci la pretesa tributaria in sede di accertamento?
Accanto all’evasione che buona parte del mondo politico vorrebbe combattere limitando o azzerando l’utilizzo del contante, c’è quella posta in essere dalla grandi multinazionali e dal sistema bancario che con strumenti apparentemente leciti, tendono ad occultare ricavi al fisco. Il più delle volte si tratta di strutture societarie complesse, spesse residenti in paradisi fiscali, che vengono utilizzate per compiere transazioni finalizzate proprio ad occultare ricavi al fisco e quindi essere soggetti ad una tassazione più mite. Queste operazioni, che arrecano danni miliardari alle casse dello Stato, non sono affatto poste in essere utilizzando moneta contante, bensì moneta elettronica. Si riesce così a spostare fiumi di denaro con un semplice clic e con altrettanta facilità ad occultare ricavi al fisco. Il caso del Monte Paschi, banca tanto cara al Pd, ne costituisce un esempio eloquente. In questo caso, si parla di presunte tangenti per circa 3 miliardi di euro, che sono stati movimentati con un semplice clic.
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