Società

Fisco agevolato per far tornare gli investitori esteri

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ROMA (WSI) – Burocrazia opprimente, costo del lavoro gravato da troppe tasse, giustizia farraginosa: ecco perché gli imprenditori stranieri amano sempre meno l’Italia.

Mentre le imprese nostrane all’estero continuano a crescere – si stimano dai 20 ai 30 miliardi i flussi di investimenti italiani all’estero nel 2013, con l’Italia che è addirittura il terzo investitore nel Regno Unito, dietro Usa e Giappone – decine di aziende straniere hanno deciso di chiudere gli stabilimenti italiani o abbandonato i progetti: l’anno scorso su 617 richieste di assistenza a Invitalia, l’Agenzia nazionale che aiuta gli imprenditori stranieri nell’insediamento nel nostro Paese, solo 35 si sono concretizzate in un investimento.

E siamo al 78° posto nella classifica Ocse per capacità di attrazione degli investimenti dall’estero. Una débâcle, contro la quale il governo sta correndo ai ripari: Destinazione Italia, la micro task force di tre consulenti istituita presso il ministero dello Sviluppo economico, sta mettendo a punto un piano per rendere attraente il nostro territorio agli occhi degli stranieri.

Le proposte vanno in quattro direzioni: giustizia, fisco, credito e semplificazioni. Allo studio una giustizia semplificata, con tre fori dedicati agli imprenditori stranieri (Milano, Napoli e Roma), agevolazioni per i crediti, apertura del patrimonio immobiliare e artistico agli stranieri, snellimento delle concessioni.

Ma anche zone franche, come quelle già immaginate in passato ma mai messe in atto. Obiettivo: non far ripetere più casi come quello dell’imprenditore tedesco che voleva mettere su uno stabilimento in Puglia. Dopo estenuanti trattative per lo spostamento di una tubatura, ha fatto le valigie. L’Italia? Troppo faticosa.

Fuga dall’Italia

Venti grandi colossi internazionali hanno battuto la ritirata dai nostri confini negli ultimi due anni: il caso più eclatante è la Britishgas, che ha rinunciato l’anno scorso al rigassificatore da 800 milioni a Brindisi. Altri sono in procinto di farlo.

Bridgestone ha annunciato che vuole chiudere lo stabilimento di Bari. Il colosso farmaceutico americano Merck Sharp & Dome ha comunicato la serrata a Pavia. Starebbero per chiudere i battenti anche Ceam (ascensori), presente da oltre 60 anni in Italia, la Tnt (ad Avellino) e la multinazionale svedese Dometic (condizionatori per camper).

E c’è chi rinuncia in partenza: la Cecep, colosso cinese che produce impianti di energia fotovoltaica, voleva investire 15 milioni nel nostro Paese. Si è fermata a 10, gli altri cinque li ha dirottati in Germania, scoraggiato dalla giungla normativa italiana. E rischiamo di perdere l’investimento di 130 milioni della Nec (telefonini): c’è una competizione in atto in Puglia per uno stabilimento per la produzione di batterie, ma di riunione in riunione, i giapponesi sembrano sempre più scoraggiati e propensi a scappare. Anche in Germania: dove il costo del lavoro è più alto del nostro, ma in un mese si ottengono tutti i via libera.

I richiami delle sirene

Come si convincono gli stranieri a investire in Italia? Desk Italia, la struttura creata dall’ex ministro Passera allo scopo, non è mai diventata operativa.

Stavolta l’approccio del governo è cambiato: non si parte più dalla governance, ma dal cosa fare. E qui interviene il documento che la task force presenterà a Letta a settembre. Il primo passo sarà dare certezza fiscale a chi vuole investire in Italia. Immaginando delle aree dove le tasse saranno alleggerite e unificate e proponendo sgravi a chi guadagna sul nostro territorio.

Il governo pensa poi ad un meccanismo per gli investimenti strategici: se le procedure non vengono liquidate dagli enti locali in tempi brevi, il presidente del Consiglio potrà autorizzarle.

Un capitolo delicato è quello della giustizia, che invano il ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato ha provato a inserire nel Dl fare: tre tribunali si occuperanno delle questioni legate agli investimenti esteri, con facilitazioni per il filtro in appello e la mediazione.

Per attrarre capitali stranieri in Italia, si porterà avanti la liberalizzazione dei corporate bonds. E si aprirà il mercato immobiliare, soprattutto quello commerciale: i grandi alberghi così potrebbero essere gestiti da stranieri, che oggi sono dissuasi da contratti lunghi e altri vincoli.

In questa direzione va pure la semplificazione del cambio di destinazione d’uso. E l’apertura agli stranieri della gestione pubblico-privata dei Beni culturali nostrani: il Demanio ha già pronta una lista dei beni da dismettere. Potrebbero essere coinvolte anche le concessioni balneari, che fruttano solo 120 milioni l’anno.

Il braccio e la mente

Tutte queste idee si concretizzeranno in progetti operativi gestiti da Invitalia, anche attraverso i nuovi contratti di sviluppo: tra i primi sei siglati in un anno figurano gli stabilimenti Roll Royce e quello Unilever in Campania, sostenuti con 100 milioni, il 40% dell’investimento complessivo.

L’altro braccio sarà l’Ice, che in quanto Agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane ha una vasta rete nei Paesi stranieri: «E la sfrutteremo al massimo per ricordare i punti di forza poco conosciuti dell’Italia – spiega il presidente Riccardo Monti -. Ovvero: il dna nel manifatturiero, la ricchezza media delle famiglie italiane, la buona qualità di vita, l’attenzione al lusso e al bello, ma anche il patrimonio storico-artistico e le infrastrutture in cui poter investire».

Tutta affascinante teoria? Niente affatto: «C’è già un forte interesse internazionale per F2 I, il fondo di Cassa depositi e prestiti, e di Hutchinson sul porto di Taranto – spiega Monti -. E stiamo sbloccando i progetti dei tour operator stranieri Four Season e Turi, che altrimenti lasceranno il nostro Paese: una perdita inaccettabile».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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