ROMA (WSI) – E’ come la storia dell’araba fenice: che sia in corso uno sforamento di bilancio, qualcun lo dice, se sia vero, nessun lo sa.
Da qualche giorno, dalla Ragioneria, qualcuno sussurra che il rapporto deficit-Pil a legislazione vigente avrebbe già superato la quota promessa del 3% e sarebbe attestato tra quota 3,1% e 3,3%.
Voci che a Palazzo Chigi neppure prendono in considerazione, ribadendo che il rispetto dei vincoli di bilancio rappresenta un “must”, uno dei pilastri sui quali si basa il governo sin dal suo insediamento e che il presidente del Consiglio Enrico Letta non ha alcuna intenzione di violare impegni solennemente assunti.
Ma il monito arrivato ieri da Francoforte, dalla Bce di Mario Draghi, è destinato a fare da spartiacque nella vita del governo Letta, ad influenzarne le scelte nei prossimi mesi. Anche perchè il monito evoca uno spauracchio che a Roma nessuno prende seriamente in considerazione, ma del quale si ricomincia a parlare (seppur sottovoce) a Bruxelles: il ritorno dell’Italia in area procedura di infrazione.
Ieri il commissario europeo Olli Rehn ha dedicato un passaggio significativo ai Paesi riottosi: «L’economia dell’Eurozona potrebbe essere al punto di svolta» e tuttavia vi sono «rischi significativi, fra cui l’instabilità politica in alcuni Paesi» e la «possibilità di passi indietro su alcune riforme». Passaggi che sembrano entrambi dedicati all’Italia.
Certo, l’avvertimento in arrivo da Francoforte da parte della Bce è destinato a rafforzare l’impegno del governo italiano a trovare coperture rigorose (e senza effetti sul deficit) per gli ulteriori impegni di spesa previsti entro la fine del 2013. Si tratta – milione più, milione meno – di ulteriori 4 miliardi. Che occorrono per impedire l’aumento dell’Iva; per finanziare l’abolizione della seconda rata dell’Imu; per garantire lo stanziamento per le missioni militari all’estero e gli ulteriori fondi per la Cassa integrazione. Con questi chiari di luna si troveranno risorse anche per l’annunciato taglio del cuneo fiscale, anche per un taglio inizialmente solo simbolico?
Nel linguaggio burocratico – in alcuni casi non diretto delle grandi istituzioni europee, sotto accusa sono l’abolizione dell’ Imu e la riduzione dell’Iva, che potrebbero mettere a repentaglio la tenuta dei conti pubblici e dunque la promessa fatta dall’Italia di restare nei prossimi anni entro il tetto del 3% nel rapporto tra il Pil e il debito.
Naturalmente, come sanno a Francorte e a Bruxelles, ad appesantire i conti ha contribuito il calo del Pil, che è ora è previsto in flessione dell’1,7% (rispetto all’1,3% immaginato in aprile), come ha certificato il governo stesso nella relazione al Parlamento che prelude alla Nota di aggiornamento al Def.
In quella relazione, firmata dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, si mantiene l’obiettivo del 3%. Ma conseguirlo non sarà semplice. Lo sanno a palazzo Chigi e lo sanno a via Venti Settembre, al ministero dell’Economia. Anche se, paradossalmente, il documento della Bce è destinato a dare una mano al ministro Saccomanni, non a caso legato, da anni, da un rapporto di reciproca stima con Mario Draghi.
Finora il ministro dell’Economia ha lavorato in stretta intesa col presidente del Consiglio e chi li ha visti lavorare assieme, assicura che tra i due l’intesa anche umana, si sarebbe rafforzata nelle ultime settimane. Naturalmente non è in discussione il rapporto Letta-Saccomanni, ma dopo il monito di Francoforte la coppia che guida la politica economica del governo è chiamata ad una nuova prova che finora era stata rinviata: quella di una rigorosa spending review.
Non a caso, a cinque mesi dalla nascita del governo, ancora si esita nella nomina di un Commissario, che dovrebbe essere .- ma non è ancora certo – Carlo Cottarelli del Fondo monetario internazionale.
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