ROMA (WSI) – Che ci fossero difficoltà operative lo si era intuito. La norma appare per la prima volta nella manovra estiva del 2011. Nelle intenzioni del governo Berlusconi è la strada maestra per riaprire il cantiere delle dismissioni. A novembre Berlusconi cade e il cantiere si blocca. A giugno 2012 Monti tenta di far ripartire le macchine: «Misure urgenti in materia di efficientamento, valorizzazione e dismissione degli immobili pubblici».
Il neoministro Grilli promette cessioni «per un punto di Pil all’anno», al cambio 15-16 miliardi di euro. Raccontano le cronache di quei giorni: «Ha già incontrato banche d’affari come Nomura e fondi potenzialmente interessati, dagli Stati Uniti al Qatar». Di giapponesi ed emiri si perdono le tracce in poche settimane. L’ultima notizia sulle agenzie di stampa risale al due maggio di quest’anno, quattro giorni dopo il giuramento di Letta.
Scrive l’Ansa: «Arriva la Sgr per le dimissioni immobiliari con una dote di 350 beni e 1,2 miliardi di valore. Il Tesoro ha messo a punto il decreto per l’operatività della società di gestione del risparmio». Da allora nulla più. Non l’annuncio di un immobile ceduto, né anticipazioni su quel che la Sgr – partecipata da Fintecna e Demanio – sarebbe intenzionata a fare.
Ora, che il mercato immobiliare non stia passando un gran momento è cosa nota. Altro è capire come mai uno strumento immaginato più di due anni fa per far ripartire il processo di dismissione dei moltissimi immobili pubblici possa essere ancora oggetto di tira e molla fra gli uffici. Al Tesoro rispondono laconici: «Manca l’ultimo via libera della Banca d’Italia, lo stiamo attendendo».
La questione è tutt’altro che secondaria, perché agli occhi dell’Europa il dossier dismissioni dovrebbe essere una delle priorità del governo. Dal primo gennaio 2014 entrano in vigore le regole del Fiscal compact, quelle che – almeno sulla carta – ci obbligheranno a ridurre la mole del debito pubblico di un ventesimo l’anno fino a che non saremo scesi sotto al 60% del rapporto deficit-Pil.
Poiché quel debito è più del doppio, le regole ci imporrebbero di ricavare fra privatizzazioni e dimissioni una cinquantina di miliardi l’anno.
Al Tesoro lo sanno bene, e in effetti nel menù della legge di Stabilità ci sono diverse opzioni: la cessione di quote di aziende (da Fintecna a Poste), l’attribuzione alle Regioni del demanio marittimo, la vendita di immobili del Demanio e di altri enti. Proprio gli immobili che avrebbero dovuto essere attribuiti almeno in parte alla Sgr fantasma. Come mai?
Una fonte del Tesoro che chiede l’anonimato ci offre un indizio: «C’è un problema di sovrapposizione fra il lavoro del Demanio e quello dell’Sgr. Si tratta di decidere come risolverlo». Per il Pdl – in fibrillazione per ben altro – ogni occasione è buona per mettere il dito nella piaga. Soprattutto se si tratta di temi che – almeno a parole – hanno riempito pagine di programma elettorale: «Fallito il piano Grilli sono curioso di capire cosa dirà Saccomanni al Commissario Rehn in visita a Roma», dice il capogruppo Brunetta. Più d’uno racconta che il ministro nutrirebbe seri dubbi sullo strumento della Sgr: per via dei costi della macchina e per la fiducia che riporrebbe nei confronti di colui che fu chiamato allora a guidarla, Vincenzo Fortunato. Lo stesso Fortunato che pochi mesi fa lasciò il Tesoro dopo la lunga monarchia come capo di Gabinetto nei governi Berlusconi.
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