MILANO (WSI) – Che cosa sono i miracoli? Sono eventi infinitamente poco probabili? Sono eventi impossibili che tuttavia si verificano? Sono violazioni delle leggi di natura, come diceva Hume? Sono logicamente impossibili, come sosteneva Spinoza? Può Dio violare o lasciare violare le leggi di natura che ha stabilito? E se non può, vuole dire che non è libero? Parlare di miracoli significa addentrarsi velocemente in un terreno filosoficamente accidentato e pieno di trappole.
Che i miracoli esistano, tuttavia, non può essere negato. Se ne stanno verificando alcuni proprio in questi giorni. Il primo l’ha compiuto la Fed ed è quello di essersi prima spaventata per una crescita in accelerazione e poi per un’accelerazione che non c’è stata e avere comunque fatto coincidere il tutto con un nuovo potente massimo storico di Wall Street.
Il secondo lo compirà domenica la Merkel, che si farà rieleggere cancelliere avendo tenuto insieme la Germania e l’Europa, i greci inferociti e i tedeschi nostalgici del marco. E avendo alla fine salvato l’euro senza averne l’aria.
Il terzo si è compiuto in Italia, dove la grande coalizione sopravvivrà. Non ci saranno elezioni e non ci sarà nemmeno un governo di segno politico diverso e forse divisivo.
Il quarto si è compiuto in Siria, dove non si è risolto nulla, sia chiaro, ma si è comunque evitata un’escalation del conflitto da una parte e si è creato un disincentivo all’uso ulteriore di armi chimiche dall’altra. Questi miracoli non sono divini, sono umani. Hanno quindi parecchi punti oscuri, anche inquietanti. Il sollievo quindi dovrà essere temperato e la soddisfazione disincantata.
La Fed che rinuncia al tapering rinuncia anche a una guidance più favorevole sull’occupazione. L’attesa della vigilia era di un tapering di 10 miliardi compensato da un abbassamento della soglia di disoccupazione che avrebbe determinato la fine della politica ultraespansiva. La soglia era al 6,5 per cento, si pensava che sarebbe stata abbassata al 6 e invece è restata al 6,5. È chiaro che nel Fomc si è negoziato parecchio. Per un economista è molto più importante la soglia rispetto al tapering, ma per il mercato è il contrario. Il tapering era l’headline e la Fed lo sapeva benissimo.
La Fed ha mandato dunque un messaggio forte al mercato e uno sfumato agli economisti. Al mercato si è indicato il semaforo con la luce verde di nuovo accesa. Luce verde per l’azionario, ma soprattutto per i bond. Luce verdissima per gli emergenti, che recuperano contemporaneamente su cambio e corsi. Agli economisti si strizza l’occhio, facendo capire che l’abbassamento della soglia al 6 per cento ci sarà, state tranquilli, ma sarà per una delle prossime volte. Il mercato è già in estasi così, per adesso non serve strafare.
Dalla vicenda ricaviamo due lezioni. La prima è che una Fed trasparente è anche, per forza di cose, una Fed un po’ nevrotica. Una Fed che fa mark to market sui dati, cambia quindi idea ogni volta che esce un dato migliore o peggiore del precedente e in più ci comunica questi cambiamenti di idee (lei l’ha fatto in queste settimane, è il mercato che si è fissato con i suoi 10 miliardi), una Fed così non si è dimenticata della regola aurea della politica monetaria, quella di pensare a 18-24 mesi e non agli ultimi 5 minuti.
Non si è dimenticata, ma ha comunque il terrore del 1937, la paura della ricaduta. È una Fed che è pronta a sbilanciarsi davvero molto sul lato espansivo ed è pronta a sbagliare da questa parte pur di non sbagliare in senso restrittivo.
Buono a sapersi. La put di Bernanke, la rete di protezione sotto i mercati e l’economia, è una put at the money. La rete, cioè, non è qualche metro sotto i trapezisti, come al circo, ma è pochi centimetri sotto di loro. La put della Yellen sarà ancora più vicina. A ben guardare, tutta la nevrosi degli ultimi tre mesi, il tapering, l’inizio della stretta monetaria, la fine dei bond, il crollo imminente degli emergenti e poi il clamoroso contrordine di queste ore, tutto questo è successo per una crescita americana che doveva passare dal 2 al 2.5 e invece è restata al 2. Questo porta però il mercato a un cortocircuito mentale un po’ inquietante.
Se fra qualche settimana, finita la guerra politica che sta iniziando a Washington sulle note vicende, si vedrà di nuovo il 2.5 profilarsi all’orizzonte ricominceremo con il tapering e le nevrosi?
C’è chi dice di sì (una minoranza, per il momento) e prevede quindi un rialzo di breve durata, quel tanto da provocare uno sbilanciamento rialzista del mercato cui seguirà una caduta che farà male agli ultimi entrati e sarà difficile da controllare.
Molti dicono però che al prossimo accenno di tapering i mercati faranno spallucce e sbadiglieranno. Si smetterà di salire perché non ci sarà più il Qe integrale? Vorrà dire che si comincerà a salire perché l’economia avrà preso velocità. A queste altezze di valutazione (non estreme, ma a 1725 si ha una splendida vista sul 666 di quattro anni fa) ci si comincia però a chiedere per quanto tempo le borse continueranno a salire del 20 per cento l’anno con un’economia che cresce del 2.5. Non è un problema per l’immediato, sia chiaro, ma è la conferma di un fatto acclarato. La seconda parte di un ciclo economico è più incline ai crash di borsa della prima parte.
Venendo alla Germania, la Merkel cancelliere è l’unica certezza. Per il resto non è molto facile capire che cosa augurarsi. Come tedeschi ci augureremmo una coalizione con i liberali, che sono l’unico partito che si oppone alla voglia di aumentare la pressione fiscale(in un paese, si noti, in surplus di bilancio dal prossimo anno) di tutti gli altri. I liberali sono però a rischio. Subiscono la concorrenza di Alternative für Deutschland che, se riuscisse a entrare al Bundestag, avrebbe molte possibilità di rendere ancora più complicati tutti i passaggi parlamentari e costituzionali della futura unione bancaria e fiscale europea.
Come italiani non facciamoci illusioni. Solo la Linke ci vuole bene e molto meno di una volta. Verdi e Spd sono sempre più freddi sull’ipotesi eurobond. In questi anni si è molto pensato, fuori dalla Germania, a una voglia tedesca di uscire dall’euro.
Era un timore (o una speranza) completamente infondato. Il libro di Bini Smaghi ce ne dà conferma. La Germania ha accarezzato per qualche tempo l’idea di fare uscire la Grecia, ma non è mai stata sfiorata dall’idea di fare saltare l’euro e non lo è tuttora, a parte AfD. Fine della storia?
No, per niente. Dai laboratori politico-economici tedeschi, dalla Bundesbank e dalle fondazioni di studio sono state altre le strategie elaborate per il resto dell’Europa. Prima l’austerità. Poi la svalutazione interna, con l’abbassamento del costo dei fattori. Poi le grandi imposte patrimoniali. Adesso la parola d’ordine è ristrutturazione del debito bancario e sovrano. Tutto, insomma, fuorché la crescita.
La moda culturale della ristrutturazione non è più solo tedesca. Sul sito di Bruegel (un laboratorio tanto discreto quanto autorevole e influente) è uscito di recente uno studio molto interessante, Sovereign Debt and its Restructuring Framework in the Euro Area. L’autore, Ashoka Mody, è stato fino a pochi mesi fa il numero due del Dipartimento Europeo del Fondo Monetario.
Mody propone la trasformazione del debito sovrano in Cocos sovrani. I Cocos sono un ibrido tra debito ed equity. Sono debito quando c’è il sole e diventano equity quando inizia a piovere. Se ad esempio un paese dovesse superare una certa soglia di debito, il valore nominale delle sue obbligazioni verrebbe automaticamente ridotto, in modo da riportare automaticamente il debito al valore di partenza. Una ristrutturazione ordinata in termini concordati in anticipo (e quindi scontati dai creditori) è molto meglio, dice Mody, di una ristrutturazione caotica all’ultimo momento. Alla fine anche i creditori avrebbero da guadagnarci.
È affascinante che Mody non proponga i Cocos solo per l’Italia e la Spagna, come verrebbe da pensare, ma anche per la Francia e per il Belgio e, in prospettiva, per tutti i paesi sviluppati. È un’esercitazione accademica come tante, si dirà, e lascerà il tempo che trova. Oltretutto a paesi come l’Italia basterebbero pochi sforzi ulteriori (che però non si fanno) per stabilizzare davvero il debito. Riflette però lo spirito del tempo, che è quello dell’equitizzazione del debito.
Ontologicamente tutto è equity. Il debito, in ultima istanza, è solo un diritto di precedenza nella spartizione dell’equity. Ne discende allora che, in un mondo dove le banche centrali lavorano alacremente per aumentare il valore nominale dell’equity è meglio possedere quello che ha upside (le azioni) piuttosto che quello che ha downside (i bond). Per questa ragione, anche con i mercati ai massimi, suggeriamo di non vendere nemmeno un grammo di equity, pur consapevoli che i prossimi due mesi, a Washington, saranno piuttosto vivaci. In caso di flessione saremo ancora compratori. Quanto ai bond, è il momento dei più equitizzati. Emergenti, alto rendimento, Italia e Spagna.
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