ROMA (WSI) – E adesso, dopo l’incoronazione in quella che fu la stazione di partenza di un’avventura che pareva senza futuro, l’interrogativo si è fatto ancor più semplice.
Quanto tempo ci vorrà, dopo l’8 dicembre, perché il Pd di Matteo Renzi e la nuova-vecchia Forza Italia a trazione berlusconiana (Silvio o Marina non cambia granché) entrino in rotta di collisione e facciano finire il governo a gambe all’aria? Di ottimisti, cioè di entusiasti pronti a pronosticare lunga vita per Letta e i suoi ministri, in giro se ne trovano sempre meno.
Dario Franceschini – per la prima volta alla Leopolda – ieri ha provato a fingere grande convinzione: «Il governo dura, e c’è il tempo per fare le riforme, come chiesto dal Presidente della Repubblica: Renzi ha spazzato via tutti i sospetti su cosa vuole fare». Ma deve averlo fatto in maniera così poco convincente, Renzi, che il furbo Brunetta l’ha messa, invece, così: «A provocare le elezioni sarà Renzi. E’ superficiale e ondivago, ma non sciocco: sa che per tenere assieme Civati e D’Alema, Cuperlo e la Puppato, l’unico modo è andare a votare subito».
Possibile che sia così. Come è ugualmente possibile, invece, che siano le scissioni prossime venture nel centrodestra a far precipitare la situazione. Una cosa, però, sembra farsi sempre più evidente: sia da una parte che dall’altra, la tentazione di tornare alle urne è assai forte. Forte ed esasperata da una certa ristrettezza dei tempi: perché si arriva alla crisi entro febbraio oppure lo scivolare verso il semestre Ue di presidenza italiana determinerà lo slittamento del possibile rendez vouz elettorale almeno fino alla primavera del 2015.
Il quadro della situazione, del resto, è sufficientemente noto: non uno dei tre partiti che sostiene il governo delle larghe intese gode di buona salute (per aggrapparsi a un eufemismo…). Il Pd è alle prese con il traumatico avvento del «rottamatore», e chi lo conosce da un po’ – come Davide Serra, il «finanziere dello scandalo» – non ha dubbi su quel che farà: «Decidere significa tagliare via… Dopo l’8 dicembre Matteo farà quello che è giusto».
Il Pdl è sull’orlo di una scissione, che pare sempre meno evitabile, sia che la si guardi con gli occhi dei «lealisti» sia con quelli dei «governativi». Mentre Monti e Scelta Civica, sono nel pieno di un cataclisma i cui effetti sul governo non sono ancora del tutto prevedibili.
In questo quadro – e con la vicenda della decadenza di Berlusconi ancora aperta – uno spiffero può trasformarsi in uragano; ed una critica, una annotazione, in qualcosa capace di travolgere l’esecutivo. Che senso dare, per esempio, al vigore col quale Renzi ieri ha urlato alla Leopolda «noi siamo i custodi del bipolarismo: mai più inciuci, mai più larghe intese, mai più giochini sulle spalle degli italiani»? E’ un impegno che vale per il domani, per il dopo-Letta, o una promessa da realizzare subito? E se è fondata la «rivelazione» di Simona Vicari, senatrice Pdl, secondo la quale «le elezioni le vogliono i renziani, i falchi Pdl e tutto il Movimento Cinque Stelle», ecco, se questa è la polveriera sulla quale siede Enrico Letta, chi darà fuoco alla miccia?
Comunque sia, l’intervento col quale Renzi ha chiuso ieri il suo quarto raduno alla Leopolda, almeno non ha appesantito la situazione. Non l’ha nemmeno alleggerita, in verità: ma questo sarebbe stato insensato sperarlo. Che il sindaco di Firenze punti alla guida del governo, è noto da tempo; così come il fatto che la sua scalata alla segreteria Pd sia in funzione di quell’obiettivo. L’interrogativo (che per molti è già certezza) è se utilizzerà il suo possibile ruolo di segretario del maggior partito di governo per accorciare i tempi di vita dell’esecutivo, così da sfidare già in primavera la coalizione di centrodestra.
Il conto alla rovescia, dunque, potrebbe essere iniziato: e la carica di Renzi e le crescenti tensioni nel Pdl potrebbero stringere Letta in una morsa mortale. Con buona pace, naturalmente, delle riforme da fare (da quella elettorale a quella della giustizia), delle preoccupazioni del Capo dello Stato e della situazione in cui versa il Paese, per il quale nuove elezioni ad un anno appena dalle ultime non sembrano davvero la prima delle medicine necessarie.
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