Privatizzazioni: fare cassa sul breve è segno di una politica disperata del governo Letta
ROMA (WSI) – Otto aziende coinvolte, fino a dodici miliardi di entrate che andranno a ridurre l’entità del debito pubblico al massimo per la metà. Il piano annunciato ieri da Enrico Letta non ha nulla a che vedere con la stagione delle grandi privatizzazioni, quando l’Italia in pochi anni vendette beni per quasi cento miliardi.
Il premier lo definisce un «primo pacchetto, agile e rapido» a cui ne seguirà un secondo. Da luglio, quando Fabrizio Saccomanni ne parlò la prima volta, il tema era finito in sonno. Per costringerlo a passare dalle parole ai fatti c’è voluta la quasi bocciatura della legge di Stabilità da parte dell’Europa e il blocco del margine di flessibilità sugli investimenti concesso ai Paesi in regola con il 3% nel rapporto deficit-Pil.
Letta lo ammette senza giri di parole: «Domani mattina (oggi per chi legge) si riunisce l’Eurogruppo e bisognava dare al ministro modo di battagliare con più argomenti». Il commissario Rehn fa capire che a Bruxelles hanno apprezzato: «La porta per l’Italia è sempre aperta, tutto dipenderà dalla spending review o altre decisioni». Il quasi leader del Pd Renzi si dice contrario «a privatizzazioni per fare cassa», e «non solo perché non è il momento giusto sul mercato».
Ieri cinque deputati della sua area (fra questi Michele Anzaldi e Luigi Bobba) lo hanno messo nero su bianco. Con loro protestano Guido Crosetto (Fratelli d’Italia) e il forzista Daniele Capezzone. Eppure il piano del governo non si preoccupa della cassa, semmai serve a convincere Bruxelles che, in un modo o nell’altro, nel 2014 il debito italiano, seppur di pochissimo, scenderà.
Le stime più recenti del Tesoro dicono che nel 2014 lo stock scenderà dal 132,9 al 132,8%, un nonnulla utile solo a rassicurare gli investitori sulla nostra buona volontà. Più di tanto Bruxelles non può insistere poiché l’Italia è sempre uno dei più grandi contributori netti dell’Europa e in nome di questo ha distribuito aiuti a Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna per 45 miliardi, tre punti di quel debito.
Il resto lo ha fatto la crisi: più è basso il Prodotto interno lordo (il denominatore), più alto è il rapporto. Tutti gli economisti – la Banca d’Italia in primis – insistono nel dire che solo una crescita del 2% può creare le condizioni per una discesa duratura. In attesa di vederla (la vedremo?), conta la sostenibilità di quel debito: la Commissione crede che invece di scendere, l’anno prossimo saliremo dal 133 al 134%.
In questo trionfo di zero virgola c’è tutto il problema che qualcuno (vedi Grillo) pensa risolvibile uscendo dall’Europa o con un colpo di spugna, e che per noi significherebbe il default. Ciò detto, se perfino il Pd Stefano Fassina – non certo un amante delle privatizzazioni – apprezza «un pacchetto che raccoglie risorse per piani industriali» è perché Letta ha deciso di usare parte di quei denari per fare altro.
«Metà andrà a riduzione del debito, metà alla Cassa depositi e prestiti», azionista di cinque delle otto aziende in vendita: Sace, Fincantieri, Tag, Cdp reti e Grandi stazioni. Ciò significa che il governo incasserà per dodici miliardi ma ne porterà a riduzione del debito appena sei, lo 0,35%. Perché non utilizzare tutto il ricavato per quella finalità?
La risposta è nei «piani industriali» citati da Fassina, ovvero la decisione di sostenere le attività della Cassa, che è sempre più il braccio operativo di un governo imbrigliato nei vincoli. Il piano industriale 2014-2016 prevede l’aumento degli impieghi da 84 a 95 miliardi. Parte di questi fondi serviranno ad aumentare le garanzie per le banche italiane dai rischi di crediti insoluti delle imprese: è quel che prevede uno degli emendamenti alla legge di Stabilità. Un modo per tentare di sostenere la crescita ed evitare alle banche gli ulteriori contraccolpi della crisi aiutandole ad aggirare le regole europee oltre che le nuove severissime regole sui requisiti di capitale. Ma così fan tutti, a partire dai tedeschi.
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ROMA (WSI) – Al forum economico organizzato ieri a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, con la partecipazione della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente della Bce Mario Draghi, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, è venuta a difendere le ragioni degli investimenti per la crescita. Cercando di far capire che proporre il modello tedesco al resto d’Europa è «molto egoistico e illusorio»: perché è sbagliato pensare «che il resto d’Europa sia ininfluente negli andamenti economici futuri della Germania».
Davanti a un uditorio tutt’altro che ben disposto, Camusso ha provato a far passare un’idea che dalla prospettiva italiana sembra quasi ovvia: «Sono gli investimenti che generano crescita, non il contrario». E invece «oggi non ho purtroppo visto la disposizione tedesca a partecipare di più alla crescita dei partner europei», spiega Camusso a La Stampa.
«La discussione di oggi ha sostanzialmente escluso l’idea che ci siano allentamenti delle regole, chiamiamoli eurobond, investimenti, allentamenti dei patti di stabilità. Ho visto un atteggiamento molto rigido: per la cancelliera Maastricht va bene così com’è, come se non fosse successo nulla tra Maastricht e oggi». Eppure le cose sono cambiate eccome a livello internazionale: «Oggi la situazione non è più che noi e gli Usa esportiamo e gli altri comprano».
Secondo il segretario Cgil è anche per questo sbagliato pensare di proporre il modello tedesco per il resto d’Europa. «Intanto l’idea che tutto si risolva sull’esportazione, non occupandosi del tema della domanda interna, che l’Europa possa inondare tutto il mondo, che gli altri non esistano. Mi pare non funzioni: una quota parte della crisi dipende proprio da come sono emersi altri Paesi».
Ma poi «dire di fare le stesse riforme della Germania è sbagliato: ognuno parte da un contesto e affronta dei problemi diversi. Noi abbiamo problemi di ricostruzione di un sistema che sono molto diversi. In questo c’è una visione molto egoistica della propria condizione». Insomma, «nessuno può chiedere a un Paese di rinunciare alla sua capacità d’esportazione, ma forse è bene pensare che non c’è un infinito surplus che si determina, se l’economia europea arretra».
Gli investimenti servono poi anche per la lotta alla disoccupazione giovanile, su cui «mi pare ci sia un atteggiamento un po’ ondivago. Eppure io non vedo soluzioni e risposte finché non ci si deciderà a sbloccare gli investimenti, per determinare un cambio di passo sul tema dell’occupazione».
Anche l’idea del salario minimo, che in Germania quasi sicuramente sarà introdotto dal prossimo governo di grande coalizione, non è facilmente trasportabile in Italia. «In Germania il salario minimo è la risposta al fatto che si sia creato un bacino di milioni di lavoratori con retribuzioni troppo basse. La risposta migliore è quella del salario minimo o della copertura contrattuale? Il tema è aperto. Ne abbiamo iniziato a discutere anche nel sindacato europeo». Ma in Germania il rapporto tra lavoro regolare e irregolare «è molto diverso dal nostro: la nostra preoccupazione è che il salario minimo possa contribuire a diminuire le tutele abbassare i livelli di contrattazione e porti un’ulteriore immersione di una parte dell’economia».
Europa a parte, ieri l’Italia discuteva il piano da 10-12 miliardi di privatizzazioni. Che non piace molto a Susanna Camusso. «Ovviamente bisognerà guardare un po’ meglio cosa significhi, soprattutto in termini di controllo effettivo di queste aziende. Da una parte appaiono operazioni di realizzazione, ma mi preoccupano dal punto di vista del governo effettivo delle imprese».
Inoltre «non so neanche se questo sia il momento migliore di fare operazioni di questo tipo e privarsi degli effetti positivi che invece le imprese pubbliche dovrebbero avere». Per il segretario Cgil quel che servirebbe davvero sarebbero invece «un po’ di operazioni di equità fiscale e redistribuzione. Alleggerire la tassazione sul lavoro e sulle imprese che investono e che fanno occupazione, quella sarebbe economia reale, quella è domanda, ripresa di lavoro».
E invece si lavora all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, con il necessario spostamento di risorse da altri capitoli più utili alla crescita che «ha pesato molto. In realtà si è ripetuta la stessa scelta che abbiamo fatto sull’Ici. Da allora inseguiamo quelle risorse perdute di cui invece avremmo un disperato bisogno per metterle nella crescita della domanda e negli investimenti. Con un ulteriore elemento: la politica fatta sull’Imu ha determinato un arretramento delle risorse disponibili per i comuni, mettendoli in grande difficoltà».
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