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Prodi e tutte quelle mosse per arrivare al Quirinale

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ROMA (WSI) – Piazza della Pigna, Roma, lunedì 17 dicembre. Sono le quattordici e trenta, Giorgio Napolitano ha appena finito di vergare il duro discorso che di là a breve rivolgerà alle forze politiche dal Quirinale e in un piccolo ristorante romano un amico del presidente della Repubblica, Emanuele Macaluso, offre al cronista un’opinione gustosa rispetto a un duello che segnerà i prossimi mesi di questa tormentata legislatura.

“Secondo me – dice Macaluso – Romano Prodi al dopo Napolitano, un pensierino ce lo sta facendo”. Prodi, già. Come spesso capita al Prof. bolognese, il suo percorso politico non è lineare, è ricco di contraddizioni, svolte impreviste, percorsi a zig zag, piroette e tentativi, spesso maldestri, di camuffare la propria rotta. Rotta che però, per una sorta di teorema del prodismo, risulta evidente e alla luce del sole ogni volta che viene solennemente smentita dal diretto interessato.

E’ andata sempre così. Prodi arriva in Europa e sbuffando dice che non tornerà più in Italia per fare politica, e poi te lo ritrovi di nuovo in Italia e di nuovo presidente del Consiglio. Prodi lascia indignato la presidenza del Pd, dice che non vuole più avere a che fare con questa politica e poi te lo ritrovi lì sul palco a festeggiare l’elezione a segretario di Pier Luigi Bersani e a prendersi gli applausi.

Ancora. Prodi dice con solennità che non ha intenzione di immischiarsi con l’elezione del presidente della Repubblica, e poi eccolo lì impegnato a diventare presidente della Repubblica. E poi. Prodi dice sdegnato che non ha intenzione di votare alle primarie e poi, oplà, eccolo che si presenta alle primarie per essere accolto come il salvatore dei gazebo.

Oggi stessa storia. Il professore dice che no, per carità, non sono iscritto al Pd, non voglio aver a che fare con questa politica, non voglio aver a che fare con la direzione, mentre i suoi fanno capire che invece sì, con Renzi alla guida del Pd ritorna il bipolarismo e ovviamente, per il dopo Napolitano, il prodismo potrebbe essere candidato naturale al Quirinale.

Così arriva Renzi, il Rottamatore, e tutti i prodiani che fino a qualche mese fa al nome di Renzi associavano le parole “101”, “franchi”, “tiratori” e “traditori” sono lì che spifferano al cronista che “ovviamente Romano ha votato Matteo”, che “ovviamente Romano segue con affetto la corsa di Matteo” e che “ovviamente Romano è sempre stato incuriosito dal percorso di Matteo”. Matteo e Romano di qua. Giorgio ed Enrico di là.

Al netto delle smentite che continueranno ad arrivare, Prodi, nei prossimi mesi, tenterà di salire sul taxi di Renzi, pomperà benzina nel serbatoio del segretario, incoraggerà la battaglia contro l’ideologia della grande coalizione, farà arrivare messaggi pieni d’amore al nuovo segretario del Pd (via Graziano Delrio), eviterà di offrire messaggi di sostegno al governo dei 101 (da quando è nato ha ricevuto più parole d’affetto da Brunetta che da Romano) e proverà a farsi trovare, quando sarà, in cima alla lista dei quirinabili del Pd renziano.

Un po’ per questioni di curriculum, d’accordo. Un po’ però, come ha suggerito la sera delle primarie la storica portavoce di Prodi, Sandra Zampa (oggi diventa vicepresidente del Pd), perché con Renzi si può “rimarginare la ferita dei centouno”.

I centouno, già. Come spesso capita nella storia delle corse di Prodi – quasi mai segnate da fasi di autocritica, quasi mai segnate da fasi di riconoscimento degli errori, quasi mai segnate dalla consapevolezza che i tradimenti possono essere causati anche da semplici valutazioni politiche, e non da complotti, e quasi sempre segnate da una sorta di insindacabile sacralizzazione delle proprie esperienze di governo – il filo conduttore del suo percorso è caratterizzato da una sorta di debito che il suo partito deve sempre restituire al Prof. bolognese.

E in questa fase, ovvio, il debito che il Pd deve pagare a Prodi è quello contratto con il tradimento del 19 aprile che ha portato poi all’elezione di Napolitano. Renzi, ascoltando il discorso di Re George, discorso che il segretario ha sentito riferito più al Pd che al Cav., ha capito che la fine della legislatura coinciderà con la fine del regno di Napolitano. La prospettiva, a guardar bene, non preoccupa Renzi.

Il segretario è convinto che anche in caso di voto anticipato Napolitano si dimetterà dopo le elezioni, e non prima. E anche qualora il governo dovesse cadere nel 2014 e Napolitano dovesse scegliere di far eleggere a questo Parlamento il suo sostituto, Renzi è convinto che la carta Prodi sarebbe quella giusta da piazzare. Sia per far scontare al Pd il suo peccato. Sia, nel caso, per avere dalla propria parte la persona giusta con cui organizzarsi per andare subito a nuove elezioni. Romano e Matteo. Enrico e Giorgio. E chissà che non sia proprio questo il grande duello che segnerà i prossimi mesi di questa tormentata legislatura.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Il Foglio– che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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