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Con Scorsese Wall Street è sesso, droga e rock & roll

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NEW YORK (WSI) – Dopo quasi tre ore di film, la nuova pellicola di Martin Scorsese non presenta alcun intreccio narrativo se non quello di mostrare Jordan Belfort, il re dei broker dei primi Anni 90, mentre abbraccia “la filosofia spietata di Wall Street”.

Come spesso accade, infatti, i principali studi cinematografici non comprendono e rappresentano mai Wall Street in modo corretto, come sottolinea Forbes, ma si attaccano semplicemente ad una visione fantastica fatta di grezza amoralità e di brama di denaro, che generalmente non portano a nulla di buono se non al carcere.

In questo incomprensibilmente lungo film della Paramount, “The Wolf of Wall Street” (Il lupo di Wall Street, in uscita in Italia il 23 gennaio), bisognerebbe credere che un luogo di intermediazione finanziaria, gestito da una manciata di clown dai colletti blu, possa facilmente sfruttare l’ingenuità e l’avidità degli americani ordinari, per ottenere una strada spianata verso ricchezza istantanea, sfilate di belle prostitute, grandi quantità di cocaina e abbuffate di barbiturici: in pratica, una versione primitiva di Sodoma e Gomorra.

“Il lupo di Wall Street” è più una fantasia orgiastica stereotipata che non un vero e proprio sguardo alla realtà della Borsa di New York. Come tale, infatti, sembra più una sorta di pornografia primitiva. Nel film si descrive una vita immaginaria, che ha poco se non addirittura nulla a che fare con Wall Street come la conosciamo oggi.

Droga e sesso sembrano essere le uniche motivazioni per la brama di denaro. L’immagine fotografata dalle telecamere non ritrae altro che l’inciviltà, una giungla in cui bugiardi patologici e truffatori sopravivono ed hanno successo. E proprio come Hollywood descrive Wall Street, come un mondo di cartoni animati senza alcun valore morale di civiltà, anche i romanzieri hanno avuto le stesse difficoltà nell’essere realistici e fedeli alla cultura del denaro.

Forse l’unico modo per comprendere Wall Street, non è fatto di finzioni o di fiction, ma di un film-documentario come “Inside Job”: un vero pezzo di storia, non un’invenzione. Un racconto morale e non un ritratto deprimente dello squallore.