ROMA (WSI) – «Il notaio me l’aveva detto quando ho comprato casa. Sposti qui a Torino la residenza, pagherà meno. Ho pensato: perché devo dichiarare il falso?». Margherita Simonetta non l’ha fatto, e quest’anno ha sborsato soltanto di Imu 2.122 euro. Un’enormità per un appartamento di cento metri quadrati a Borgo San Paolo, periferia della città. Una mazzata per un’insegnante che guadagna 1.780 euro al mese.
Il paradosso è questo: Margherita Simonetta, 59 anni appena compiuti, docente di italiano e storia in un istituto professionale, lavora e abita a Milano, in un casa in affitto («Cucinino, soggiorno e camera da letto. Cinquecento euro al mese»).
È un donna semplice ma determinata, non le andava di prendere in giro lo Stato. «La mia scuola, i miei interessi, i miei affetti sono qui in Lombardia. Perché devo spostare la residenza in una città dove non vivo».
Il ragionamento non fa una piega. Ma per il Fisco e la legge italiana l’abitazione torinese è a tutti gli effetti come una «seconda casa», un lusso su cui infierire a colpi di tasse.
«Ho investito tutti i miei risparmi. Era l’appartamento dei miei genitori, ci hanno vissuto solo loro. Quando è morto mio padre l’ha lasciato a noi figli. Mi sono detta, se proprio devo acquistare una casa compro questa, così ho rilevato le quote degli altri tre fratelli».
Non si capacita che lo Stato possa essere così miope. «È l’unico immobile che possiedo, non mi risulta che la Costituzione imponga di acquistarlo nella città dove si lavora».
In questi mesi talvolta ha vacillato, ha pensato che forse doveva dare retta al notaio, non può permettersi di «buttare» i soldi così. È durato poco, sui principi non intende transigere: «Non posso fare come una coppia di amici. Sono affiatatissimi, ma lei ha la residenza a Milano, lui nella casa a mare a Santa Margherita Ligure. Ufficialmente vivono separati…».
Sorride, perché nonostante tutto è ottimista. «È giusto pagare le tasse, ma è possibile che nemmeno la sinistra abbia mai fatto una proposta che tenga conto del reddito e della reale ricchezza dei contribuenti?». Ha votato Pd, ha partecipato alle primarie e dopo aver ricevuto la cartella dell’Imu ha scritto a Fassino (il sindaco della sua «seconda» città) e Letta, a Renzi e Saccomanni.
«Solo Cuperlo mi ha risposto, magari l’ha fatto il suo staff, ma ho apprezzato. Mi ha scritto che ho ragione, che però dovevo pagare».
Su questo anche lei è d’accordo. Diligentemente ha onorato le due rate, e adesso è costretta a salti mortali per non andare in rosso. «Chiedo scusa, ma i quotidiani non li compro più. Purtroppo non solo io, una volta anche i miei colleghi arrivavano con il giornale sotto il braccio, adesso non vedo più nessuno».
Non solo. «Basta anche con il caffé al bar, soprattutto dopo che è aumentato a un euro. Cinque in meno a settimana sono venti euro al mese, 250 euro in un anno…».
Al parrucchiere però non può rinunciare. «Non posso presentarmi davanti agli studenti come una barbona. I ragazzi sono attentissimi a come vai vestita, ne va della tua autorevolezza». Però si è fatta furba. «Vado ogni settimana dai cinesi: 8 euro per una piega, così ne risparmio 7. Sono 32 euro al mese, più di trecento all’anno».
Al cinema è andata due volte da settembre, al teatro mai («Era già un lusso prima…»), i libri li compra di seconda mano («Nel banchetto di piazza Fontana»). Ai politici ha scritto: «Mi sembra gravissimo che un’insegnante sia costretta a tagliare su questo tipo di spese».
A volte lo sconforto prende il sopravvento: «Non riesco più a trasmettere ai miei allievi il rispetto delle leggi e della Costituzione». Ma non molla, l’insegnamento è la sua vita:
«In classe sono più gli stranieri, sudamericani, cinesi, romeni, albanesi… Un tempo era più facile, adesso devi dedicare molto tempo all’alfabetizzazione della lingua italiana, molti sono appena arrivati e conoscono solo poche parole». Studenti difficili? «Tutt’altro, sono molto volenterosi. Ci tengono a imparare, soprattutto le ragazze filippine. Tanti vogliono proseguire gli studi, andare all’università».
Stamattina, come fa da 32 anni, tornerà come sempre a scuola («In metropolitana, non ho mai avuto la macchina»), nella città dove lavora e dove vuole continuare a vivere. A che se la sua «prima casa» è altrove.
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