MILANO (WSI) – È l’ennesima conferma. Fare previsioni per l’anno successivo in dicembre (o addirittura in novembre, come ormai si usa per sperare di avere ascoltatori non troppo distratti dalle feste) non è saggio. Il rialzo di fine anno e l’eccitazione che si respira nell’aria intossicano la comunità dei gestori e degli analisti, arrivando a lambire anche i policy maker.
Intendiamoci, non è che tutti gli anni si pecchi per eccesso di ottimismo. A volte, infatti, la realtà batte la fantasia. Nel dicembre 2012, quando l’SP 500 veleggiava intorno a 1400, la stima di consenso degli strategist per fine 2013 era un 1570 che sembrava anche piuttosto aggressivo. Alla fine, però, il 2013 si è chiuso tra i fuochi d’artificio con l’indice a 1848.
Comprensibile dunque, con tali risultati, il clima di euforia e la sua proiezione nelle attese sul 2014. Tra novembre e dicembre, del resto, si sono verificati allineamenti astrali di sublime perfezione. Tutti i dati macro hanno sorpreso al rialzo, e non di poco. Il consenso si attendeva, negli Stati Uniti, un secondo semestre di crescita annualizzata al 2 per cento e a consuntivo lo abbiamo visto al 4. La creazione di nuovi posti di lavoro ha preso velocità e gli utili delle società sono stati eccellenti, con segni di ripresa perfino nella tecnologia. A coronare il tutto, l’accordo a sorpresa sul bilancio americano ha tolto di mezzo un macigno che si temeva potesse pesare fino a primavera inoltrata. La pace politica a Washington, dal canto suo, ha reso possibile alla Fed decidere finalmente la riduzione progressiva dei suoi acquisti di titoli, liberando anche in questo caso il mercato dall’incertezza.
E c’è dell’altro. La tregua fiscale nei paesi sviluppati, già iniziata l’anno scorso ma con il pieno dispiegamento dei suoi effetti positivi previsto per il 2014, ha fatto legittimamente pensare a un’accelerazione della crescita nelle due maggiori economie del mondo, l’America e l’Europa. La riduzione dell’indebitamento delle famiglie americane verificatasi dal 2009 al 2013 ha del resto già iniziato a fare crescere di nuovo la voglia (e la possibilità) di spendere. Con l’inflazione così bassa, d’altra parte, si è pensato che nessuna nube monetaria avrebbe oscurato il cielo terso dei tassi a zero per tutto il 2014 e forse anche per il 2015.
Comprate dunque azioni, si è detto. Finanziatevi vendendo i bond al capolinea e l’oro che protegge da pericoli che non esistono. Il risultato è che, alla fine di gennaio, le grandi borse perdono dal 4 al 5 per cento, i Treasuries trentennali guadagnano il 4 per cento e il vituperato oro è salito del 5. Tutto sbagliato. L’unica indicazione di consenso giusta, fino a questo punto, è stata quella di restare lontani dagli emergenti. Che cosa è successo? C’è stato uno spettacolare allineamento di elementi negativi. Nessuno di questi, preso singolarmente, è particolarmente grave. Messi in fila uno dietro l’altro, tuttavia, producono l’effetto di fare vacillare le certezze di fine 2013. Vediamoli.
Nel primo gruppo mettiamo i problemi che già conoscevamo bene due mesi fa e che abbiamo scelto di ignorare o minimizzare. Non riguardano gli emergenti, che non brillavano neanche allora, ma noi. In America e in Europa.
In America una buona metà della crescita del secondo semestre è stata dovuta a un improvviso ottimismo delle imprese, che si sono finalmente convinte che le cose stavano per volgere verso il meglio e si sono messe ad accumulare scorte. Le case automobilistiche hanno riempito i piazzali di auto nuove, la grande distribuzione ha riempito gli scaffali. Senza la produzione in più necessaria ad aumentare le scorte il Pil avrebbe continuato a crescere del 2 per cento e nessuno avrebbe gridato al miracolo. I compratori di auto e i consumatori si sono comportati bene, ma non così bene come si era pensato. Lo stesso per i compratori di case. I saldi di Thanksgiving e gli acquisti di Natale non sono stati trionfali anche se la fiducia soggettiva delle famiglie è cresciuta. Il risultato è che adesso ci sono scorte da smaltire. La produzione deve quindi rallentare per un paio di mesi. Alcuni dati macro hanno già iniziato a registrare questa tendenza, altri seguiranno nelle prossime settimane.
In Europa ci sono miglioramenti evidenti in quasi tutti i paesi, ma anche qui non sono così marcati come ci si aspettava. I policy maker, negli ultimi tre mesi, hanno profuso ottimismo ma hanno forse calcato la mano nell’ansia di dichiarare superata la crisi e nella speranza di convincere le imprese e i consumatori a fare la loro parte. Nel secondo gruppo di problemi mettiamo quelli che due mesi fa non erano visibili. A parte l’aggravarsi della crisi politica turca, è la Cina che sta mostrando qualche inatteso segnale negativo.
La Cina è sempre un’entità misteriosa e, come tale, genera in certi momenti un’ansia eccessiva. Il mistero è dovuto in pari misura alla scarsa trasparenza e credibilità delle statistiche cinesi e alla poca voglia, nei mercati, di mettersi a studiare seriamente la futura prima economia del mondo. Il risultato è una sindrome bipolare per cui la Cina, nelle nostre teste occidentali, alterna l’imminente crollo con una noiosa crescita del 7 per cento in cui è in gioco al massimo qualche decimale. Nessuno, per dire, che osi mettere nero su bianco una previsione di crescita del 2 per cento, dello zero o del 10. O è 7 o è, come in questi giorni, crollo.
Il terzo ordine di problemi è nei mercati stessi. Tra dicembre e l’inizio di gennaio gli indicatori di ottimismo sono arrivati a toccare livelli che storicamente hanno prodotto praticamente sempre una correzione. Anche in questo caso una parte significativa del mercato ha scelto di ignorare la sirena d’allarme e ora ne paga le conseguenze. Un altro aspetto tecnico molto importante è che i mercati devono a se stessi una correzione e hanno, su questo punto, una coda di paglia sempre più lunga. Le correzioni hanno una loro logica potente che attiene alla psicologia del profondo. Gli umani di tutte le culture hanno rituali di purificazione e penitenza che rispondono a un bisogno fondamentale di riequilibrio. Ritardare la celebrazione di questi riti produce disagio e senso di colpa.
Dal Levitico ai libri penitenziali che hanno cominciato a circolare nella Cristianità dal VII secolo le purificazioni sono formalizzate e standardizzate nei modi, nei tempi e nell’intensità. Non basta infatti il pentimento soggettivo, occorre un rito di espiazione evidente e pubblico. I libri penitenziali delle borse prevedono, per i peccati non particolarmente gravi, due tipi di correzione, una del 5 e una del 10 per cento. La prima è prescritta almeno una volta all’anno e la seconda è consigliata, anche se ogni tanto (come nel 2013) si salta un anno. La prima porterebbe l’SP 500 a 1755. La seconda a 1663. Perché il 5 e il 10 e non il 4 e l’11? Semplicemente perché come primati abbiamo due mani con cinque dita ciascuna. La biologia e l’antropologia vengono prima dell’economia e della finanza.
Per come si presentano le cose in questo momento una correzione del 5 per cento, che ci riporterebbe ai livelli d’inizio novembre, dovrebbe essere sufficiente. Uno strategist sofisticato come Christopher Potts sostiene che il minimo della correzione è vicinissimo nel tempo, se non nello spazio.
Ci sono in effetti i primi segnali di sentiment eccessivamente negativo, almeno nel breve. Gli emergenti vengono venduti tutti, indipendentemente dai meriti. Gli utili sorprendentemente positivi (là dove ci sono) non vengono premiati da rialzi dei titoli. E per finire il Grande Paradosso. Si vende perché si teme che il tapering possa portare a un bear market dei Treasuries e si comprano esattamente i Treasuries, facendoli risalire. Gran finale, le voci di fallimento improvviso dell’Ungheria, ricorrenti nei momenti di crisi e sempre totalmente infondate ma puntualmente efficaci.
Che conseguenze trarre? L’architettura delle previsioni di dicembre rimane solida. Il ciclo delle scorte farà ancora qualche danno, ma la tregua fiscale rimarrà e non mancherà di produrre i suoi effetti positivi. I problemi del 2014 saranno probabilmente simili, per i mercati, a quelli del 2013. Ricordate la correzione di luglio, quando si temette il peggio per il preannuncio a sorpresa del tapering? Fu autoprodotta, nel senso che fu basata solo su paure, non su fatti oggettivi. È ben vero che le paure possono produrre a loro volta danni oggettivi, ma solo quando si prolungano per settimane o mesi.
Il momento per temere sul serio un deterioramento reale verrà più avanti, quando i tassi cominceranno a crescere per davvero. Gli emergenti e i mediterranei che avranno sprecato l’occasione per rimettersi in sesto quest’anno e il prossimo verranno puniti con estrema severità. Ma c’è un tempo per tutte le cose e adesso è ancora presto per fasciarsi la testa.
La Cina, con il suo peso, sarà il fattore decisivo per spostare la bilancia da una parte o dall’altra. I problemi strutturali sono evidenti, ma non trascuriamo troppo la qualità della leadership attuale, ampiamente dotata di forza, intelligenza, equilibrio e capacità politica. Sono doti che nel medio periodo contano infinitamente di più di un brutto mese di produzione industriale (che risente inevitabilmente del ciclo negativo delle scorte che abbiamo visto sopra). Chi è molto investito rimanga fermo e aspetti un recupero. Anche se il 2014 non sarà bello come il 2013 è comunque difficile che un anno di crescita in accelerazione si traduca in borse in discesa. Chi è rimasto in bond approfitti della situazione e compri una prima tranche nell’ipotesi di una correzione limitata al 5 per cento e una seconda nel caso il mercato voglia bere l’amaro calice fino in fondo.
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