MILANO (WSI) Che cosa è successo davvero tra il 22 gennaio, quando l’SP 500 ha chiuso a 1843 e il 3 febbraio, otto sedute dopo, quando l’indice ha toccato, durante il giorno, 1735? E che cosa è successo tra il 3 febbraio e il 12, quando l’indice era di nuovo a 1822? Intendiamoci, qualche volta le borse si muovono (anche molto) senza che succeda nulla intorno a loro. Accade anche alle case, per fare un esempio. Resistono a trombe d’aria e terremoti e poi crollano senza preavviso in una qualsiasi giornata di sole e senza vento.
Il crash del 1987 fu esattamente questo. L’uso generalizzato degli stop loss, che faceva sentire tutti sicuri e compiaciuti della loro astuzia e abilità, provocò il collasso dell’indice in poche ore. Occorsero nove mesi e una politica monetaria per quei tempi straordinariamente espansiva per recuperare quello che si era perduto tra un venerdì e il lunedì successivo.
Questa volta però la veloce caduta delle borse e il forte recupero dei Treasuries sono stati accompagnati da una lunga serie di spiegazioni dettagliate. La crisi turca, la svalutazione argentina, il default minacciato da un fondo cinese e il chiaro rallentamento in molti dati macro negli Stati Uniti hanno fornito, in un crescendo di gravità man mano ci si avvicinava al cuore del sistema globale, spiegazioni evidentemente considerate convincenti.
Poi, senza ragioni apparenti, si è corsi a comprare con foga quello che fino a poche ore prima si era venduto con grande impegno. La Turchia, ad esempio, sembrava precipitata nel caos politico e in una crisi di bilancia dei pagamenti mentre oggi, senza che sia cambiato nulla di sostanziale nello scontro istituzionale che lacera il paese, prepara tranquillamente il lancio di un bond trentennale in dollari, un tipo di operazione che di solito viene realizzata nei momenti di massima calma e solidità.
E che dire dell’Argentina, data per spacciata a metà gennaio e di nuovo in piedi oggi? I bond in dollari hanno recuperato l’8 per cento dai minimi e il peso si è addirittura rafforzato contro dollaro.
Quanto alla Cina, di cui sembrava iniziato il crollo, nessuno parla più delle obbligazioni pericolanti (che ci sono ancora) mentre il tasso di crescita, che era dato come prossimo al tracollo, è di nuovo tornato al suo trantran del 7 per cento.
A colpire più di tutto sono comunque gli Stati Uniti. La prima uscita ufficiale della Yellen come governatore è stata letta da Ethan Harris, il capo economista di Bank of America che ha trascorso anni all’ufficio studi della Federal Reserve e ha scritto un libro su Bernanke, come un impegnativo esercizio, perfettamente riuscito, nel parlare per alcune ore senza dire assolutamente nulla di nuovo. Il mercato ha creduto invece di trovarvi chissà quali rassicurazioni ed è salito prima, durante e dopo la testimonianza della Yellen. Quello che è successo sul serio è che gli Stati Uniti hanno deciso di allentare la pressione su Erdogan e che l’Argentina, con qualche azzeccata misura tampone della banca centrale, ha dimostrato di essere ancora in grado di tenere sotto controllo la situazione.
Quanto all’America, il dato sull’occupazione è risultato sufficientemente ingarbugliato da potere fare gridare al bicchiere mezzo pieno quando, fino a qualche giorno prima, si era voluta guardare solo l’altra metà, quella vuota. Che insegnamenti si possono trarre da queste due settimane così agitate?
Il primo è che l’indicatore di sentiment, quello che registra il grado di ottimismo tra gli investitori, si è mostrato ancora una volta perfettamente funzionante. Quando l’ottimismo diventa euforia, come è successo in gennaio dopo il grande rialzo partito all’inizio di ottobre, significa che i portafogli si sono riempiti. Non si può essere euforici e restare alla finestra. Il panico può anche paralizzare, ma l’ottimismo senza freni porta all’allentamento completo delle inibizioni all’acquisto. A quel punto, immancabilmente, basta poco per capovolgere la situazione.
Il secondo insegnamento, da tenere ben presente nei prossimi due-tre anni, è che più ci si muove verso le atmosfere rarefatte della sopravvalutazione e più aumenta la volatilità. È un fenomeno simmetrico a quello che si verifica solitamente nella parte matura di un bear market. Oggi, sia chiaro, la sopravvalutazione è modesta e infatti la correzione di cui stiamo parlando è stata solo del 5 per cento. Nei prossimi mesi, però, e soprattutto dal 2015 in avanti (se è vera la nostra ipotesi di una continuazione del grande bull market) le correzioni si faranno via via più incisive.
C’è poi una riflessione strategica. La correzione dell’anno scorso, più lunga, e quella veloce di queste due ultime settimane, prefigurano i temi che ci preoccuperanno, molto più di oggi, nei prossimi tre anni. Si tratta del progressivo indurimento delle politiche monetarie e delle difficoltà che questo provocherà in alcuni paesi emergenti ai quali si aggiungerà a un certo punto la riapertura del dossier Europa, per ora riposto nel cassetto.
La nostra idea è che per tutto il 2014, come minimo, non vedremo un reale inasprimento delle politiche monetarie. In Europa e in Giappone vedremo semmai il contrario. Quanto all’America, il tanto temuto tapering è in realtà il fattore che tiene ancorati i tassi a lungo e impedisce loro di salire. Se la Fed, in presenza di un’economia in accelerazione, continuasse il Quantitative easing aggressivo del 2013, il mercato comincerebbe a scontare un aumento veloce dell’inflazione dal 2016 in avanti e produrrebbe un rialzo dei rendimenti sui titoli lunghi non acquistati dalla Fed, come ad esempio i corporate bond.
Le correzioni del 2014, così come l’episodio dell’estate scorsa, saranno dunque conseguenza non di fatti reali, ma dei fantasmi che periodicamente si agitano nelle menti degli investitori quando il loro portafoglio diventa troppo carico di titoli. Detto in altri termini, saranno occasioni di acquisto.
Certo, la Cina ha seri problemi strutturali, il Brasile, la Turchia e l’India non sono da meno, per non parlare dell’Italia. Nessuno di questi paesi, tuttavia, si troverà verosimilmente ad affrontare crisi acute nel 2014. Tutti potranno cavarsela con le loro forze senza ricorrere ad aiuti esterni. I più accorti tra loro lavoreranno per iniziare ad affrontare i problemi strutturali, i meno accorti non faranno nulla. Anche per questi ultimi, in ogni caso, il 2014 non sarà fatale, perché il mondo nel suo complesso terrà e perché le politiche monetarie globali non diventeranno restrittive ancora per molto tempo.
Questo scenario, tutto sommato molto favorevole al rischio, avrà per il 2014 un solo vero possibile punto debole, l’eventuale discesa ulteriore dell’inflazione. Questa è la vera grande paura delle banche centrali, che cercano di esorcizzarla o dichiarando che i prezzi riprenderanno presto a salire oppure chiudendosi nel più assoluto silenzio sulla questione, come fa la Fed da un paio di mesi. Le banche centrali parlano poco della mancanza di inflazione perché sperano che i mercati, i consumatori e le imprese non se ne accorgano e non aggiustino al ribasso le loro attese di medio e lungo termine sui prezzi. Tacciono anche perché temono di non avere più molte armi convincenti per reflazionare.
Da parte nostra continuiamo a credere che l’esito finale, nei prossimi anni, sarà più inflazionistico che deflazionistico. Le risorse inutilizzate, infatti, sono ancora abbondanti ma continuano a ridursi. Se però si commetterà qualche errore di policy, come ad esempio il non risanare seriamente le banche europee, si produrrà inevitabilmente, su scala più larga, quella zombificazione che ha portato il Giappone alla deflazione e alla stagnazione per due decenni. Nel breve termine vediamo il recupero azionario prossimo al termine. I dati macro saranno incerti ancora per questo mese e parte del prossimo. Sorprese positive potrebbero però arrivare dalla Bce, speriamo il prima possibile.
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