MILANO (WSI) – Le rendite finanziarie, insieme all’aumento delle accise sui carburanti e delle tasse sugli immobili, sono spesso i primi a finire nel mirino dei nuovi Governi a caccia di risorse.
In particolare, sembra che fra i primi punti del Governo Renzi ci sia quello di “rimodulare” le aliquote sulle rendite finanziarie per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale.
Il problema è che il gettito stimato, nel caso in cui la tassazione sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di stato) salisse dal 20% al 28%, è di circa 2,5 miliardi (naturalmente dipenderebbe dall’andamento dei mercati ovvero dalle plusvalenze generate) pari a poco più di 110 euro all’anno per ogni lavoratore o meno di 10 euro al mese.
Non bisogna dimenticare che già il governo di Mario Monti all’inizio del suo mandato, portò la tassazione dal 12,5% al 20% con un aumento di 7,5 punti percentuali, che nel 2012 ha dato un maggiore gettito di 2,2 miliardi di euro.
In realtà l’aumento che sembra prospettare il “Job Act” di Renzi è del 5% portando l’aliquota al 25% il che genererebbe introiti ancora minori.
Ben più altro sarebbe il gettito se si aumentasse l’aliquota attuale del 12.5% per i titoli di Stato, ma questa sarebbe una partita di giro in quanto il Tesoro dovrebbe aumentare i tassi sui titoli di Stato per renderli ugualmente appetibili sul mercato.
Non dimentichiamo poi che i risparmiatori sono già stati abbondantemente tartassati con l’introduzione dell’imposta di bollo sui depositi pari all’1 per mille annuo per il 2012, l’1,5 per mille annuo per il 2013 e del 2 per mille a decorrere dal 2014 (eliminando la misura minima di imposta applicabile di 34,20 euro).
Una vera e propria “mini patrimoniale” che va nella direzione auspicata dal governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, secondo cui i paesi alle prese con problemi di debito pubblico e a rischi default dovrebbero applicare una imposta patrimoniale, prima di chiedere aiuto alla BCE e agli altri paesi.
Infine bisogna considerare che con l’apprezzamento dei mercati alcune imposte diventano più onerose; in particolare la famigerata tassa sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax), in vigore dal 1° marzo 2013 sulle azioni e dal 1° settembre sui derivati, allarga il suo bacino di azione a un numero maggiori di titoli in quanto la loro capitalizzazione ha superato i 500 milioni di euro.
Fra le azioni su cui non si pagava la Tobin nel 2013 e invece è dovuta nel 2014 (se l’operazione è aperta per più di un giorno) ci sono titoli come: Astaldi, Banca Ifis, Engineering, Gr Edit Espresso, Italmobiliare, Marr, Cred.Valtellinese, Marr, Safilo, Save, Solo, Vittoria Ass ecc.
Anche per quanto concerne l’investimento sui derivati che hanno come sottostante indici e azioni italiani è bene verificare che il valore nozionale del contratto non abbia superato gli scaglioni nei quali era nel 2013, in virtù dell’incremento di prezzo del sottostante.
Per chi, ad esempio, investe sul Footse Mib future è bene ricordare che con il derivato sopra i ventimila punti, l’imposta aumenta di ben 5 volte entrando nello scaglione del controvalore 100 -500 mila. In sostanza con il Footse Mib future sui valori attuali si paga una imposta di 0.75€ (sia in entrata che in uscita senza esenzioni per l’intraday) contro gli 0.15€ del 2013.
Facendo una semplice simulazione sul sito http://www.tobin-tax.it/ scopriamo che un investitore attivo che ama fare trading intraday sul derivato italiano subirà un incremento di costo non indifferente.
Se ad esempio immaginiamo un operatore che esegue in media 3 trades al giorno (acquisto e vendita) sul Footse Mib future pagherà annualmente 1.189,19€ di Tobin Tax (4.5€ al giorno)
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ROMA (WSI) – Nel paese fantastico sta andando in onda la sceneggiata dell’ulteriore tassazione delle rendite finanziarie. Il messaggio che viene veicolato al cittadino è quello secondo il quale sarebbe “immorale” che le rendite finanziarie scontino livelli impositivi inferiori ai redditi prodotti dal lavoro, e che quindi occorrerebbe un ribilanciamento del prelievo fiscale al fine di ridurre il carico tributario sul lavoro, aumentando la tassazione sui risparmi.
Purtroppo la verità è sempre maledettamente diversa da come viene raccontata, e per onorarla occorre scavare, scavare e scavare ancora, al fine di capire come stanno realmente le cose.
Se andassimo sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze consultando gli ultimi dati disponili sul sito, relativi al periodo d’imposta 2011, si scoprirebbe questa tabellina che ci consente di smentire l’affermazione secondo la quale il lavoro sarebbe tassato di più delle rendite finanziarie.
Questa tabellina (vedi sotto) ci racconta che in Italia, i redditi imponibili prodotti da tutti i lavoratori dipendenti, sia del settore pubblico che del settore privato, nel periodo di imposta 2011, sono ammontati a circa 453 miliardi di euro. Il gettito Irpef prodotto da questi redditi è stato circa 92 miliardi di euro, cioè poco sopra il 20% medio di Irpef. È chiaro che nell’universo dei lavoratori dipendenti ci siano coloro che scontano aliquote medie dell’Irpef sensibilmente superiori al 20% medio. Ma è vero anche il contrario. Cioè che i titolari di redditi più bassi (ne sono la maggior parte) scontino aliquote ben lontane dal 23% (aliquota primo scaglione Irpef), e sensibilmente inferiore all’aliquota media del 20%, per effetto delle detrazioni di imposta riconosciute per legge.
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Già in un precedente articolo abbiamo dimostrato che il risparmio sconta un livello di tassazione tutt’altro che leggero, fortemente inasprito nel corso degli ultimi anni.
Chi dispone di 50 mila euro investiti in obbligazioni al 3%, sconta un livello di tassazione di circa il 27% (ritenuta fiscale sugli interessi + imposta di bollo), a cui si sommano le spese bancarie e l’inflazione, restituendo un rendimento reale negativo, che erode patrimonio. La cosa si complica notevolmente se si investisse in Bot, che offrono un rendimento assai inferiore che subisce un’incidenza più invasiva dell’imposta di bollo del 2 per mille calcolata sul capitale. Senza, poi, considerare che si tratta comunque di patrimoni accumulati con flussi di reddito prodotto in età lavorativa, sui quali sono sono state pagate le relative pretese tributarie in età lavorativa.
Vi è poi un’altra questione. Ossia il gettito derivante da un possibile inasprimento del livello di tassazione sulle rendite finanziarie. Va detto che il gettito Irpef che lo stato incassa annualmente è di circa il 150 miliardi di euro. Mentre l’Irap sulle imprese vale 35 miliardi di euro.
Il gettito prodotto dalla tassazione delle rendite finanziarie, è di appena 11 miliardi di euro.
Si comprenderà agevolmente che stiamo parlando di ordini di grandezza del tutto inconciliabili ai fini di una riduzione delle imposte sul lavoro, che dovrebbe presupporre un feroce abbattimento della tassazione.
Ad esempio, per ridurre di appena il 10% la tassazione ai fini Irap (3.5 miliardi), non basterebbe aumentare del 30% la tassazione sul risparmio, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Quindi, chi parla di riduzione delle tasse finanziata dall’aumento della tassazione sui risparmi, lo fa per pura demagogia, oppure perché non conosce la materia.
Va anche detto che il gettito prodotto dalla tassazione delle rendite finanziarie, inglobando anche quello relativo alle plusvalenze maturate dalla compravendita dei titoli (capital gain), per definizione, non è un gettito strutturalmente stabile. Perché è sufficiente che i mercati scendano ed ecco che il gettito diminuisce anziché aumentare, determinando buchi nel bilancio statale che dovranno essere colmati.
In questi anni di crisi, il risparmio, ha svolto anche la funzione di ammortizzatore sociale, poiché utilizzato per integrare o sostituire un reddito eventualmente diminuito o addirittura scomparso. Se si dovesse aumentare ulteriormente la tassazione sui risparmi, si sottrarrebbero risorse a chi integra i propri redditi (magari da pensione) con piccole rendite provenienti dal risparmio. Quindi, maggior disagio sociale e minori consumi che determinerebbero una contrazione di materia imponibile sia in termini di imposizione diretta che indiretta.
Ma il risparmio è anche il baluardo della solidità del Paese e elemento indispensabile e imprescindibile per favorire un nuovo momento di slancio per il paese, semmai dovesse arrivare. Distrutto il risparmio, di questo Paese, non resterà che ceneri e macerie.
In Italia, che piaccia o meno, non c’è più nulla da poter tassare oltre quanto sia già tassato.
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