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Banche, il giorno del giudizio

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Luca Ciarrocca è il direttore di Wall Street Italia e autore de I padroni del mondo.

ROMA (WSI) – Le banche italiane sono finalmente arrivate al giorno del giudizio. Dopo decenni di gestione miope, conservatrice, clientelare, azionisti e manager stanno ora per essere inchiodati alle proprie gravi responsabilità. E dovranno presto rispondere dei molti misfatti compiuti in passato, quando le cose andavano bene. E’ l’ora che ciò accada, poiché un sistema bancario malato è parte consustanziale della crisi che attanaglia il nostro Paese. Non è più tollerabile che i banksters soffochino la liberta’ economica e il progresso dei cittadini.

Secondo uno studio recente di Goldman Sachs (banca spregiudicata ma dove almeno il tasso di competenza e’ triplo rispetto alle concorrenti) gli istituti di credito italiani in crisi che dovranno rafforzare il capitale attingendo al mercato in vista degli “stress test” previsti dalla Banca Centrale Europea nel 2014 e nei prossimi anni, avranno bisogno di una cifra complessiva tra i 17 miliardi di euro e nel “peggiore dei casi” fino a 23 miliardi di euro. Insomma: le banche annaspano e hanno un disperato bisogno di ossigeno.

I grandi marchi del sistema creditizio che per primi saranno obbligati a rastrellare soldi sono almeno 15 per una somma aggregata di circa 7 miliardi. Tra questi, il Monte dei Paschi di Siena, terza banca del paese, Banca Popolare di Milano e Banco Popolare, rispettivamente quinto e sesto istituto di credito per patrimonio. Inoltre Carige (Cassa di Risparmio di Genova) e nel nordest, la Banca Popolare di Vicenza.

Secondo il Financial Times, che qualche settimana fa ha dedicato al sistema bancario in Italia una lunga analisi intitolata Tempo di modernizzare, gli istituti della penisola hanno performato peggio di tutti gli altri europei nei primi “stress test” del 2011 ordinati da Ue e Bce dopo la recente drammatica crisi finanziaria globale. La banca peggiore in assoluto è MPS, che infatti negli ultimi 4 anni è stata già salvata 3 volte dallo stato (cioè da noi contribuenti) allo scopo di evitare il crack e il contagio di sistema.

Sulla banca toscana – la più antica del mondo – sono tuttora in corso diverse inchieste della magistratura, non solo perche’ e’ sempre stata gestita come ente subappaltatore del potere politico locale, ma anche per l’uso illegale di derivati che sarebbero serviti per coprire gli enormi buchi di bilancio (MPS ha accusato un perdita di oltre 8,5 miliardi complessivi nel triennio 2011-2013).

[ARTICLEIMAGE] Le maggiori banche, insomma, per la prima volta vedono il loro potere messo seriamente in discussione. Lo stesso presidente della Bce Mario Draghi (mai gli si potrebbe imputare di essere di parte, cioè italiano) creando scompiglio tra i colleghi banksters ha parlato senza mezzi termini di possibile “fallimenti”, nel presentare gli “stress test” che saranno condotti su tutti gli istituti europei. La Bce lancerà a novembre un “asset quality review”, ovvero la revisione della qualità degli attivi, per monitorare la solidità delle banche. L’esame di Eurotower durerà 12 mesi. Inoltre, l’Ue ha varato di recente l’Unione bancaria che dal gennaio 2015 avrà il compito di chiudere o ristrutturare le 130 banche principali dell’area euro che si trovassero in difficoltà. Alle autorità nazionali spetterà il compito di preparare i piani di fallimenti.

Draghi è stato chiaro: “Alcuni istituti avranno bisogno di fallire”; “se devono fallire, dovranno farlo, non c’è alcun dubbio su questo” ha detto. E Goldman Sachs, illustrando il suo outlook su come gli “stress test” andranno a finire, sembra già aspettarsi – in stile avvoltoio – che qualche grande marchio in effetti finisca presto “pancia all’aria”: le vittime ci saranno, anticipa la potente banca di New York.

Ci si è messa anche l’agenzia di rating Moody’s, pur con una reputazione macchiata dalla crisi 2008 (non avevano previsto nulla di quel che sarebbe successo) ma oggi in cerca di riscatto, quindi solerte divulgatrice di report oggettivi e oltremodo severi. Fatto sta che Moody’s ha lanciato l’allarme proprio sulle banche italiane: l’agenzia annuncia che farà le pulci ai 15 principali istituti, ovvero Banca Carige, Mps, Creval, Bper, Bpm, Popolare Sondrio, Popolare Vicenza, Banco Popolare, Credem, Iccrea, Intesa SanPaolo, Mediobanca, Unicredit, Ubi Banca, Veneto Banca.

[ARTICLEIMAGE] Nelle previsioni del “Credit outlook” di Moody’s si parla di “impatto negativo” per le banche che presentano indici di capitale deboli. Il documento segnala per la prima volta quali sono gli istituti più a rischio, citando in particolare Banca Carige (rating B2 sotto revisione per downgrade), Bpm (B1 negative, E+/b2 stable) e Credito Valtellinese (Ba3 negative, E+/b1 stable) per il basso livello di capitale; Mps (B3, negative) e Banco Popolare (Ba3, negative) per la debolezza della qualità degli asset. L’agenzia precisa che Banca Carige, Banca Popolare e Mps prevedono di raccogliere capitali sul mercato o attraverso la cessione di attività. Infatti proprio in questi giorni Mps ha confermato tale scenario, annunciando che vendera’ al mercato il 12% del proprio pacchetto azionario. Per gli analisti, le banche che presentano indici di capitale vicini o sotto la soglia dell’8% del Common Equity Tier fissato dalla Bce, incontreranno difficoltà nell’ovviare alle carenze di liquidità attingendo a risorse private. Di conseguenza “aumentano le probabilità di fallimento o intervento pubblico” per salvare gli istituti, con “perdite per i detentori dei bond junior”, dal momento che allo stato attuale delle cose “non esiste alcuna evidenza di una misura per bloccare eventuali deficit di capitale”. Tradotto: queste banche o faranno bancarotta o finiranno sulle spalle dello stato, cioè di noi contribuenti, già stramazzati da tasse e redditi in calo.

Stando al Financial Times (che ha elaborato dati Bce e Thompson Reuters) al dicembre 2013 l’Italia aveva 694 banche, rispetto alle 623 della Francia e 358 della Gran Bretagna. Gli istituti italiani hanno in totale 33mila filiali a raffronto delle 38 mila di Francia e 12.000 di UK, e 310.000 dipendenti (416mila, 454mila). Pare increbile, oggi, ma fino al 2010 le banche italiane erano considerate tra le più solide in Europa e anche rispetto a quelle americane, per via del legame con il territorio e per una conduzione prudente, quasi ostile all’innovazione. Caratteristiche che avevano in apparenza permesso di far fronte meglio alla crisi globale.

[ARTICLEIMAGE] Ma l’esplodere delle tensioni sul debito sovrano europeo dei Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), l’attacco simultaneo all’euro e ai Btp italiani dell’estate 2011, e soprattutto la totale e malsana dipendenza e interconnessione tra sistema bancario e il colossale debito pubblico dell’Italia, che ammonta a oltre 2 trilioni di euro, negli ultimi 2 anni hanno messo alla scoperto l’intrinseca debolezza del sistema bancario italiano.

La recessione che da 3 anni attanaglia il Paese, con una perdita complessiva dal 2011 di -9% del Pil, ha fatto il resto. Per il credit crunch (stretta creditizia) le banche hanno completamente smesso di prestare soldi alle piccole e medie imprese, per cui la ex presunta forza del sistema creditizio tricolore si e’ trasformata in un terribile handicap. Senza dimenticare l’altra grande anomalia, e cioè il fatto che il bilancio delle banche è composto in gran parte dai titoli di stato del debito sovrano (Bot e Btp).

C’è poi il capitolo dei prestiti in sofferenza, cioè inesigibili, quelli per cui il debitore non riesce piu’ a star dietro al pagamento degli interessi (l’allarme scatta dopo 90 giorni): in Italia sono saliti a fine 2013 al nuovo record storico di 155 miliardi di euro (+20% rispetto a un anno prima) stando ai dati dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) e di Bankitalia. Via Nazionale stima che i prestiti inesigibili continueranno a salire senza tregua nei prossimi anni. La crisi non molla la presa.

Se si dovesse tener conto di questa voce – cioè dell’alto numero di prestiti in default o pre-default – pare chiaro che le esigenze di ricapitalizzazione della banche italiane sono sempre piu’ ampie, drammatiche e urgenti. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato lo stesso identico allarme: la bassa redditività degli istituti dovuta al fatto che le banche non prestano all’economia reale per via della crisi, mentre i crediti in essere nel frattempo continuano a deteriorarsi, oltre al legame troppo stretto con il debito sovrano (titoli di stato) sono i veri motivi dell’alto livello di rischio tuttora presente nel sistema bancaro italiano, scrive il Fmi.

Cosa si può fare allora perché i prestiti inesigibili non mandino in bancarotta le banche? Le piu’ aggressive – comprese i due colossi italiani TBTF (too big to fail: troppo grandi per fallire) Unicredit e Banca Intesa – stanno cominciando a vendere il loro asset “tossici” ad alcune finanziarie e fondi specializzati soprattutto americani, come KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co.) che, avendo i muscoli per tenerli a lungo, ricomprano il credito deteriorato a prezzi molto scontati.

Unicredit, per esempio, ha preferito prendere di petto la situazione, buttando sul tavolo tutto il “bruttume” dei suoi bilanci, e annunciando pochi giorni fa la più colossale perdita della storia bancaria europea: un rosso di bilancio di 14 miliardi di euro, pari a oltre 20 miliardi di dollari (la perdita sarebbe stata anche più ampia se non fosse intervenuta la rivalutazione delle quote in Bankitalia voluta dal governo a favore dei banksters). Ma non è finita qui. I negoziati per sbolognare al mercato gli asset “tossici” non sono facili. Infatti i compratori – i fondi avvoltoio – pagano in media 30 centesimi per 1 euro e in certi casi appena 10, quindi con uno sconto del 70-90% rispetto al valore originale pre-crisi di quel cespite ormai svalutato.

[ARTICLEIMAGE] Tuttavia se l’operazione si conclude la banca si libera del credito tossico o in default, anche se fondamentale poi e’ che la perdita (-70/90%) appaia effettivamente in bilancio (come ha fatto Unicredit). Molti bankers in privato ammettono che per le banche italiane la soluzione migliore sarebbe un’altra: il governo, ovvero lo stato, potrebbe dar vita a una “bad bank”, un istituto pubblico nuovo a cui rifilare tutti gli asset “marci” del sistema. Come avvenne in Spagna con la Sareb, nata con una cinquantina di miliardi di capitale dopo il crollo del mercato immobiliare.

Ma c’è un ma: l’andamento reale dell’economia italiana, e non quello fasullo sbandierato dai media dei “poteri forti”, lasciano intendere che i famosi segnali di ripresa per ora non si vedono affatto. In aggiunta alla viziosa e nociva interdipendenza tra banche e debito pubblico, che continua a crescere, avendo toccato a gennaio 2014 il nuovo massimo storico di 2085 miliardi di euro. Per questi motivi, ammettono gli stessi banksters (in privato, non in pubblico) l’ipotesi della “bad bank” in Italia e’ impraticabile.

Francesco Daveri, professore di Economia all’Università di Parma, ha detto al FT: “Se una bad bank fosse creata oggi, con molte piccole e medie aziende che ancora vanno in fallimento, e con sempre più prestiti in sofferenza, i costi di finanziamento del debito pubblico italiano diventerebbero ancora più alti”. Poiché già adesso tali costi sono pari a 85 miliardi di euro l’anno per il solo pagamento degli interessi (soldi sifonati all’economia reale, ai cittadini, alle famiglie e alla creazione di nuovi posti di lavoro) prima o poi le banche, e la politica, dovranno porsi il problema del non pagamento, o della ristrutturazione, di questo gigantesco, odioso e ingiusto debito pubblico. Per poter davvero ricomiminciare da zero.

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Cadoinpiedi