Economia

Deflazione e sindrome giapponese costeranno all’Italia 15 miliardi

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ROMA (WSI) – Non si era mai vista in Europa una banca centrale che porta i tassi d’interesse quasi a zero, annunciando che non li alzerà per un pezzo. Sotto la guida di Mario Draghi, la Bce nell’ultimo anno l’ha fatto. Eppure sul fronte monetario le buone notizie e la voglia di esplorare soluzioni nuove finiscono qua: invece di scendere, il costo reale del denaro per chi ha un debito è salito.

E mentre l’Eurotower richiama di continuo i governi a ridurre il debito, essa stessa rischia di complicare loro il compito: se non verrà contrastata in fretta la minaccia di una caduta dei prezzi, alle condizioni di oggi l’Italia sarà presto costretta a trovare dieci-quindici miliardi l’anno di tasse o tagli di spesa in più (su base permanente) per rispettare il Fiscal Compact europeo. Se suona paradossale, forse è perché non corrono tempi ordinari.

Ad accezione dei mesi seguiti alla caduta di Lehman Brothers, non era mai successo nell’Europa del dopoguerra che l’indice generali dei prezzi cadesse a questa velocità. All’inizio del 2013 l’inflazione della zona euro era attorno al 2%, praticamente in linea con l’obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è stata creata per assicurare.

Ancora un anno fa l’inflazione dell’area viaggiava all’1,7%, mentre l’Italia era appena al di sotto. Avanti veloce di dodici mesi e il panorama diventa irriconoscibile: a marzo il valore è crollato allo 0,5% in Eurolandia e allo 0,4% in Italia.

Cinque Paesi su diciotto — Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche la Spagna — sono già scivolati in deflazione: invece di salire i prezzi scendono, rallentando consumi e investimenti perché le famiglie e le imprese rinviano ogni spesa nell’idea che domani costerà di meno. Sull’Europa sembra scendere la stessa cappa che per tanti anni ha cloroformizzato l’economia giapponese.

Durante questo ultimo anno, per la verità, la Bce non è rimasta con le mani in mano. Ha tagliato i tassi di 0,25% a maggio scorso, poi ha replicato in novembre.

A luglio nel frattempo aveva anche promesso che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire, senza precisare per quanto. Oggi il tasso principale al quale le banche commerciali europee prendono in prestito il denaro presso gli sportelli dell’Eurotower è allo 0,25%, un minimo che né la Bundesbank, né la Banca d’Italia avevano mai esplorato.

Purtroppo però l’inflazione si è mossa più in fretta della Bce, nella direzione sbagliata. La caduta del costo del denaro è stata di 0,5% in dodici mesi, ma quella dell’indice dei prezzi è stata dell’1,2%.

Con le sue ultime stime dello staff, l’Eurotower ha informato che fallirà al ribasso il suo obiettivo di sta bilità dei prezzi (aumento del costo della vita vicino ma sotto al 2%) per quattro anni di seguito.

Ammesso che sia possibile vedere così lontano, Francoforte dice che forse solo alla fine del 2016 l’indice dei prezzi tornerà dove dovrebbe già stare.

Come nella depressione degli anni ‘30, queste sono ottime notizie per chi vive di rendita, perché l’inflazione non erode un capitale investito. Ma sono terribili notizie per chi ha un debito: i tassi d’interesse tendono a farlo aumentare di continuo, mentre il carovita controbilancia erodendone il valore reale e rendendo più facile ripagarlo in euro un po’ inflazionati.

Il caso del debito pubblico italiano è probabilmente quello più rilevante. Ogni anno il Tesoro emette oltre 450 miliardi di nuovi bond per finanziarsi, pagando in media un interesse vicino a quello di un Btp a cinque anni. Il rendimento di quel titolo è sceso, dal 2,8% di un anno fa all’1,9% di ieri sera. Nel frattempo però l’inflazione è scesa di più, dunque il costo di ogni euro di nuovo debito pubblico dell’Italia sale in termini reali anche quando lo spread fra Bund tedeschi e Btp scende.

Per ogni euro degli oltre duemila miliardi di vecchio debito pubblico l’onere da bassa inflazione poi è ancora più forte, perché i tassi d’interesse sui vecchi titoli sono più alti. In queste condizioni il debito pubblico non scenderà mai. Proiettando l’inflazione, la crescita, le cedole su Bot o Btp e il surplus di bilancio di oggi fra vent’anni, la situazione diverrebbe insostenibile: il debito pubblico sarebbe al 148% e in aumento. Invece con un’inflazione anche com’era un anno fa, il debito sarebbe di quasi 30 punti più basso e in calo.

E’ per questo che il crollo del carovita e l’apparente rinuncia della Bce a difendere il suo stesso obiettivo di stabilità dei prezzi appaiono sempre più in conflitto con un’altra regola europea: il Fiscal Compact. Rispettare quell’impegno a ridurre ogni anno il rapporto fra debito e Pil di più del 3% è quasi impossibile se nel frattempo l’Europa ignora la sua stessa regola d’inflazione.

Per farcela, l’Italia dovrebbe aumentare stabilmente il suo surplus primario di 15 miliardi, con nuovi tagli e tasse. Ce n’è abbastanza perché il tessuto sociale e la vita politica italiani non reggano allo sforzo. Ma non è affatto scritto che le cose andranno così. Giovedì c’è il consiglio dei governatori della Bce. La palla è (anche) nel campo di Draghi.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Repubblica – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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