NEW YORK (WSI) – Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo. Il celebre incipit dell’Anna Karenina di Tolstoj ci dà un’utile chiave di lettura dei movimenti delle borse. Tutti i grandi cicli di rialzo azionario si somigliano. Il segreto sta, in fondo, nel capire il prima possibile che ci si trova in un bull market. Non è poco, naturalmente, ma una volta avuta l’illuminazione, l’entità e la durata del rialzo sono calcolabili in anticipo con relativa facilità. Questo fece Laszlo Birinyi quattro anni fa, quando disse che il ciclo rialzista avrebbe avuto vita molto lunga e si sarebbe concluso con l’SP 500 a 2400. Fu preso per matto (il mercato valeva meno della metà) e si difese borbottando che i grandi cicli si somigliano molto e che lui non aveva fatto altro che ispirarsi a quelli dei tre decenni precedenti.
I bear market, al contrario, sono come le malattie. Possono essere cronici, acuti o fulminanti. Possono prendere per stanchezza, per noia, per fastidio oppure provocare scariche di adrenalina così intense da essere insopportabili. L’impoverimento che causano può essere così lento da potere essere assorbito con un graduale adattamento psicologico oppure così veloce da fare intravedere il baratro. Il crash dell’ottobre 1987, due giorni di terrore puro, fu un unicum assoluto, senza precedenti nemmeno nel 1929.
Il grande ribasso degli anni Settanta fu al contrario lento e molto irregolare e fu intervallato, come quello del 1929-33, da recuperi tanto vertiginosi quanto effimeri. Il ribasso del 2000-2003 fu rovinoso e senza tregua solo per la tecnologia. Molti comparti tradizionali, al contrario, salirono. Il 2008-2009, dal canto suo, coinvolse pesantemente l’Occidente, ma coincise per contrappunto con il raddoppio, negli stessi mesi, della borsa di Shanghai. Anche le semplici correzioni, nel loro piccolo, non si somigliano tra loro. Consideriamo ad esempio le ultime tre.
Nell’estate 2013, quando Bernanke prospettò per la prima volta l’idea del tapering, il mercato pensò di rivivere il 1994-95, ovvero il classico momento in cui, a ripresa ciclica ormai avviata e consolidata, le banche centrali iniziano ad alzare i tassi. Venne giù tutto, azioni e bond, ma si infierì con particolare crudeltà sugli emergenti.
Nel 1994, del resto, erano stati puniti i deboli di quel tempo, ovvero l’America Latina, il Canada, la Svezia e l’Italia. La correzione dell’anno scorso terminò solo quando la Fed ritirò l’idea del tapering in settembre, salvo riproporla e realizzarla tre mesi più tardi. Tutto si riprese, tranne gli emergenti.
La correzione del gennaio di quest’anno, al contrario di quella precedente, non è stata originata da timori legati alle grandi economie o ai tassi. È stata da una parte un consolidamento fisiologico dopo la galoppata dei mesi precedenti e, dall’altra, il segno del disagio per le crisi di Argentina, Turchia, Ucraina e Venezuela.
La correzione di questi ultimi giorni, severa ma poco avvertita in Italia per la scarsa rilevanza sul nostro mercato dei settori colpiti, non è stata causata da eventi particolari, ma dal concludersi di quella fase di limbo psicologico in cui ci si era chiusi, come in un bozzolo, da più di due mesi.
Il grande freddo di gennaio, febbraio e marzo, si ricorderà, aveva indotto i mercati a non soffermarsi sui dati macro e a riporli nel cassetto in attesa del ritorno alla normalità. Una volta tappati gli occhi e le orecchie, ci si è ritrovati in uno di quei classici stati di privazione sensoriale che favoriscono l’insorgere di allucinazioni. Nel caso specifico, la deformazione della realtà si è manifestata attraverso la salita inerziale e continua dei titoli della nuova tecnologia e del biotech.
Un puro gioco di momentum, favorito anche dai programmi computerizzati di trading. Parliamo di società che sono arrivate a quotare decine di volte le vendite (non gli utili, le vendite).
Ora che il freddo è finito e che i dati macro (e gli utili del primo trimestre di imminente pubblicazione) vanno di nuovo presi sul serio è partita la corsa a vendere. Il fenomeno è stato tutto americano, ma il riaggravarsi della situazione in Ucraina ha fornito un buon motivo per accompagnare Wall Street sulla strada della correzione. Un contrarian brillante e politicamente scorretto come Fred Hickey ha scritto che la pesante correzione della tecnologia di frontiera anticipa di qualche mese quella generale del mercato, esattamente come nel 2000.
Può essere. Uno strategist misurato come David Kostin, guardando alla serie storica, parla di una probabilità del 67 per cento per una correzione del 10 per cento nel 2014, ovvero di un SP 500 in discesa temporanea fino a 1700.
La nostra impressione è che qualcosa possa effettivamente accadere più avanti, ma che nei prossimi due-tre mesi (shock esogeni a parte) questo sia improbabile. Il mercato infatti è certamente carico, ma dopo le due correzioni di quest’anno non ha eccessi di posizionamento particolarmente preoccupanti. Anche il sentiment è abbastanza equilibrato.
Restano, naturalmente, alcuni timori specifici. Alcuni settori, come ad esempio le banche americane, potrebbero deludere. La nostra scommessa è però che il mercato sarà nel caso sufficientemente forte da ruotare senza scendere. Quanto alla Fed, l’impressione è che un rialzo come quello dell’anno scorso non sia gradito. Una discesa, d’altra parte, sarebbe anch’essa vissuta con preoccupazione.
L’Ucraina, che i mercati tendono a sottovalutare, continuerà a essere un problema. Dopo una fase apparentemente conciliante, Putin ha avviato un lavoro di destabilizzazione controllata ma pericolosa del paese vicino. Il rischio non è quello di una guerra civile o di un’invasione, ma che la destabilizzazione raggiunga un’intensità tale da fare scattare la fase tre delle sanzioni, quella economica. Né la Russia né la Germania vogliono arrivare a tanto, ma nessuno ha il pieno controllo degli eventi.
La fase tre indebolirebbe più la Russia dell’Europa, ma non sarebbe affatto indolore per la Germania e infliggerebbe un colpo rilevante alla ripresa dell’Eurozona. Probabilmente i membri del direttorio della Bce non fanno dipendere più di tanto il Qe europeo dall’Ucraina, ma nella mente della Merkel le due questioni potrebbero essere benissimo collegate. Ed è la Merkel, non Draghi, che avrà l’ultima parola sulla questione, così come fu nell’agosto 2012 nel caso dell’Omt. È possibile che il Qe sia già deciso, ma lo scattare della fase tre delle sanzioni renderebbe questa possibilità una certezza immediata.
A quel punto, sanzioni e Qe, l’euro ultraforte potrebbe davvero indebolirsi.
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