ROMA (WSI) – Alla fine il voto di fiducia ha composto le divisioni interne alla maggioranza. Il decreto lavoro ottiene il via libera di Montecitorio con 344 sì, 184 no.
Il voto finale del decreto è previsto domani alle 12. Poi il testo approderà a palazzo Madama, dove dovrà essere convertito entro il 19 maggio.
Il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano non ha fatto mancare il proprio sostegno al provvedimento, ma Ncd “non rinuncia a dare battaglia al Senato” come ha affermato la capogruppo del Ncd alla Camera Nunzia De Girolamo. Secondo l’ex ministro Maurizio Sacconi, la formazione di Angelino Alfano “punterà a correggere il dl, soprattutto in tema di formazione pubblica per gli apprendisti (tornata obbligatoria) e tetto del 20% di utilizzo dei contratti a termine”.
Cosa prevede il testo
Il decreto estende da 1 a 3 anni la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato senza causale, ovvero senza ragione dell’assunzione. Il testo approvato dal governo prevedeva un massimo di otto proroghe contrattuali in 36 mesi, la commissione ha abbassato il tetto a cinque proroghe. I lavoratori `a termine´ non possono però essere in ciascuna azienda più del 20% degli assunti a tempo indeterminato (1 per le imprese fino a 5 dipendenti). La commissione ha previsto che se si supera il limite, i contratti in eccesso si considerano a tempo indeterminato. Le norme si applicano alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. La commissione ha ripristinato l’obbligo di un piano formativo individuale in forma scritta, inizialmente cancellato dal governo, ma prevede modalità semplificate di redazione.
Renzi: Polemiche sul Jobs Act? Tipiche nella campagna elettorale
In riferimento alle polemiche sul decreto lavoro ieri sera è intervenuto al Tg1 anche il premier Renzi. “Le polemiche dentro la maggioranza – ha detto il presidente del Consiglio – sono tipiche di un momento in cui si fa campagna elettorale, ma con rispetto della campagna elettorale noi vogliamo governare. Sui dettagli discutiamo ma alla fine si chiuda l’accordo perché non è accettabile non affrontare il dramma della disoccupazione”.
Bisogna decidere, ha aggiunto. “Non voglio perdere la faccia.
(RaiNews 24)
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Il decreto lavoro apre la prima crepa nella maggioranza. In un lungo vertice alla Camera, il ministro Giuliano Poletti prova a mediare tra le posizioni del Pd e di Ncd. Ma non c’è per ora intesa possibile. E il governo si vede costretto a blindare il provvedimento con la fiducia.
Ncd e Sc annunciano che diranno sì per un senso di responsabilità ma già promettono battaglia al Senato. “Sui dettagli discutano quanto vogliono, ma alla fine si chiuda l’accordo”, dice il premier Matteo Renzi. Che assiste da Palazzo Chigi allo scontro tutto interno alla sua maggioranza. Le polemiche, osserva in serata in un’intervista al Tg1, sono “tipiche di un momento in cui si fa campagna elettorale”. Ma “con rispetto della campagna elettorale, noi vogliamo governare”, afferma. E “non è accettabile non affrontare il dramma della disoccupazione. Stiamo discutendo se le proroghe debbano essere cinque o otto, sono dettagli. Con tutto il rispetto per chi deve fare campagna elettorale, noi pensiamo agli italiani”.
E per gli italiani, sottolinea anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il decreto può “accelerare il beneficio in termini di occupazione della ripresa” economica. Il governo è assolutamente convinto dell’urgenza di condurre in porto il testo varato un mese fa in Consiglio dei ministri. E verso l’ora di pranzo convoca un vertice alla Camera con i capigruppo della maggioranza, cui partecipano i ministri Maria Elena Boschi e Giuliano Poletti. Nel pomeriggio è previsto l’inizio delle votazioni in Aula ma Ncd e Sc alzano barricate contro il testo uscito dalla commissione: ad alfaniani e montiani non sono gradite le modifiche apportate dal Pd, con il via libera del governo, al testo uscito dal Cdm. E così il ministro del Lavoro si presenta ai capigruppo con una proposta di mediazione in tre punti. Poletti propone di trasformare in sanzione pecuniaria (come chiede Ncd) l’obbligo di assunzione introdotto per i datori di lavoro che superino il tetto del 20% di lavoratori ‘a termine’. E propone che sia possibile scegliere tra la formazione per l’apprendistato aziendale o regionale.
Ncd, racconta Maurizio Sacconi, sarebbe favorevole alla proposta Poletti. Ma il Pd chiede a quel punto che si riducano da 5 a 4 i rinnovi possibili per i contratti a termine senza causale. Il braccio di ferro va avanti per due ore e mezza. Poi, quando in Aula sta per iniziare la seduta, al governo non resta che prendere atto che una mediazione non è possibile. La discussione sulle modifiche si riaprià al Senato. Il ministro Boschi annuncia la fiducia, mentre viene bocciata per appena 22 voti la richiesta del M5S di riportare il testo in commissione. “C’è stata una strumentale alzata di scudi di carattere ideologico tra la sinistra del Pd e Ncd – riassume Andrea Romano, capogruppo di Ncd – Il clima della campagna elettorale è troppo pesante e impedisce di adottare leggi che migliorano il mercato del lavoro. Voteremo la fiducia – annuncia – per senso di responsabilità ma ci impegneremo al Senato affinché questo testo migliori ancora”.
A Palazzo Madama promette fuoco e fiamme Ncd: “Voteremo la fiducia alla Camera ma non rinunciamo a dare battaglia”, dice Nunzia De Girolamo. Sacconi si dice ottimista che al Senato le richieste di Ncd saranno accolte, per i diversi equilibri nella maggioranza. Ma se gli alfaniani accusano la sinistra Pd di essersi imposta e impedire una mediazione, Cesare Damiano replica: “Gli emendamenti” in commissione “sono stati sostenuti da tutto il Pd”, con il via libera del governo. I botta e risposta polemici tra alleati di governo vanno avanti, ma Poletti è ottimista: l’esame del dl lavoro si è concluso rispettandone “i contenuti fondamentali”. E “le distanze sono limitate” ma soprattutto, “non incolmabili”. Ma Renato Brunetta (FI) mette il dito nella piaga: “Il governo non ha più la maggioranza ed i numeri per governare”. (ANSA)
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Per il Senato ci vorrà un miracolo
di Elisabetta Gualmini
D’altronde non può fare miracoli. Nonostante la velocità, il ritmo e il carisma, Matteo Renzi è pur sempre a capo di un governo di compromesso. Un governo di coalizione tenuto in piedi da una strana maggioranza di partiti e correnti Pd, che sono tuttavia fondamentali per farlo sopravvivere.
Al momento del cambio a Palazzo Chigi, sia il nuovo centrodestra di Alfano sia la sinistra post-bersaniana del Pd hanno festeggiato (pur senza applaudire), perché Renzi garantiva una zattera di salvataggio alla legislatura. Non ci hanno pensato un attimo a scaricare Letta in cambio di un po’ di ossigeno.
Ma ora che Renzi detta l’agenda, su una sua linea molto netta, rischiano di scomparire: i primi, palesemente, alle elezioni europee e i secondi, senza che nessuno se ne accorga, dentro al Pd. Hanno quindi un ovvio bisogno di comunicare ai rispettivi constituencies la loro esistenza in vita e un punto di vista che li distingua, senza poter mettere d’altro canto in discussione il governo. Perché, è ovvio che, caduto Matteo, non resterebbe che tornare al voto. E allora sì, che rischierebbero di rimanere davvero senza fiato!
Questa «naturale» dinamica di un governo di coalizione, in Italia si svolge secondo le liturgie e i canoni del nostro scombinato assetto istituzionale. Con un Parlamento caotico, poco autorevole e vociferante che si è già abituato da un bel pezzo al gioco delle parti che prevede la moltiplicazione degli emendamenti civetta, senza speranze, presentati per parlare a segmenti organizzati dell’elettorato, in attesa che il governo tolga tutti dall’imbarazzo con il ricorso alla fiducia.
Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. A meno che le due questioni oggi in ballo non aprano una crepa o non creino un alibi, dopo le Europee, per una rottura.
Quindi entrando nel merito della prima questione – il lavoro – siamo al solito conflitto divisivo tra difensori della flessibilità e i paladini delle garanzie a tutti i costi (un teatrino che va in scena da quasi vent’anni, dal Pacchetto Treu in avanti). Che tuttavia dà esiti molto deludenti, provvedimenti zoppi e annacquati senza alcun impatto di tipo strutturale. Come il decreto legge su cui ieri Renzi ha messo la fiducia dopo il compromesso raggiunto con la minoranza Pd. L’ennesimo (e modesto) maquillage alle regole sui contratti di impiego (diminuzione delle proroghe per i contratti a termine e più vincoli all’uso dell’apprendistato) che, sia nella formulazione originaria sia in quella addomesticata di ieri, non avrà un grande effetto sulla creazione di posti di lavoro.
La crepa sulla riforma del Senato è ancora più insidiosa. Perché su questo punto Renzi ha realmente innovato rispetto a tutte le proposte precedenti, le quali partivano dall’assunto di conservare due distinti corpi di parlamentari eletti, e di conseguenza una doppia filiera di incarichi e strutture burocratiche: il vero costo finanziario e decisionale del bicameralismo. E’ sempre stato un assunto non detto ma rigorosamente intoccabile, da cui discendeva poi, di conseguenza, la necessità di dare al Senato un ruolo, se non identico, equipollente a quello della Camera, finendo per costruire architetture ancora più bizantine dell’attuale. Gli oppositori interni di Renzi, da ultimo il senatore Chiti, mentre enunciano grandi principi, si appendono in realtà a questa consolidata resistenza corporativa e si sono infilati nella consueta traiettoria. Con il Movimento 5 Stelle che, messo in difficoltà ormai ogni giorno dall’antipolitica di Renzi, non può che andare a sposare una battaglia di retroguardia. Ma il mancato superamento del bicameralismo, al di là della sua intrinseca irragionevolezza, si porterebbe dietro anche l’inapplicabilità o l’inutilità dell’Italicum. Perché un Senato eletto (magari con la proporzionale) verrebbe sicuramente dotato di poteri in grado di intralciare il percorso del governo, che abbia o no formalmente il potere di votare la fiducia.
Quindi, sul lavoro Renzi può anche muoversi come hanno già fatto quasi tutti i governi degli ultimi anni. La rivoluzione «gigantesca» che ogni giorno ci promette, nel caso che qualcuno si distragga, non passerà da lì. Non sarà per lui o per il ritocco all’impianto giuridico che ripartirà il mercato del lavoro. Sul Senato invece si gioca la partita della vita, del suo governo e dei governi delle prossime legislature. Qui sì, pensandoci meglio, il miracolo ci vorrebbe davvero.
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