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L’insostenibile leggerezza di Renzi. E il gap tra quel che dice e quel che fa

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ROMA (WSI) – Il modo in cui avanzano riforme e interventi del governo Renzi è figlio di due particolarità. La prima è il ritardo pluriennale accumulato dall’Italia sul cammino delle riforme: ogni tanto e’ istruttivo rileggere la lista degli interventi chiesti al nostro Paese dalla BCE il 5 agosto 2011, regolarmente a parole sottoscritti dai tre governi precedenti quello attuale a cominciare da Berlusconi, impegni poi rimasti in larghissima misura sulla carta.

La seconda particolarità è invece quella politica: alla premiership Renzi è arrivato dopo una lunga lista di errori gravi del Pd, prima e dopo le elezioni del 2013, e dopo il logoramento evidente del governo Letta accartocciatosi sull’IMU. Per parti non trascurabili del Pd, Renzi e’ diventato un leader obbligato di fronte ai guai che si erano determinati, ma non per questo un leader di cui si condivide davvero spirito e obiettivi.

Ecco perché, ora che si è entrati nel vivo dei primi interventi con il decreto Poletti sul lavoro, con quello sul bonus ai redditi medio bassi, e con i primi confronti sulla riforma del Senato, tra le riforme annunciate con entusiasmo da Renzi e il confronto concreto che si articola sui loro testi inizia a manifestarsi uno iato evidente.

Sul decreto Poletti è andata come è andata. La marcia indietro alla Camera rispetto al testo iniziale, sia in materia di lavoro a tempo determinato, sia di apprendistato, sia di formazione pubblica obbligatoria, porta impresse con chiarezza le orme della sinistra Pd di matrice sindacale. Renzi ancora ieri nei suoi tweet ha ripetuto che si tratta di modifiche di dettaglio, e che davanti ai disoccupati a milioni gli italiani non capiscono chi fa questioni di lana caprina. Ebbene noi non siamo iscritti al partito dei cosiddetti “gufi”, ma non per questo possiamo venir meno al nostro dovere di osservatori. Aver piegato il saggio ritorno alla flessibilità del testo iniziale di Poletti alle contrarietà tipiche di chi diffida delle imprese, è il segno che Renzi ha un grande problema aperto con la sinistra del suo partito.

E’ un problema che potrebbe diventare ancor più serio quando si metterà mano alla delega sul nuovo codice semplificato del lavoro. Ma che intanto è già serissimo sul testo di riforma del Senato. Anche ieri la sinistra Pd, estesa ai bersaniani, tornando a difendere un Senato elettivo si è mostrata perfettamente in grado di spaccare trasversalmente la maggioranza, e di snaturare l’obiettivo che Renzi ha indicato.

Quanto al bonus ai redditi medio-bassi, è un fatto e non un pregiudizio che il testo alla fine sia diverso da come è stato presentato. Certo il bonus arriva ai redditi medio-bassi da subito, ma ripetere che ora arriva anche quello per pensionati e incapienti – il premier l’altro ieri ha incluso anche per la prima volta i lavoratori autonomi – stride con ciò che il ministro Padoan giustamente ripete a ogni intervista. E cioè che se ne parlerà solo nella legge di stabilità a fine anno, perché le coperture vanno ben congegnate: prima ancora di estenderne i beneficiari, al fine innanzitutto di rendere tali interventi strutturali e non una tantum come oggi sono.

Si aggiunge la smentita continua sul fisco. Si ha un bel dire che le imposte non aumentano, ma aumentano eccome. Perché l’aliquota del 26% sulle cosiddette “rendite”, sommata alle altre imposte già adottate in materia come quella sul conto-titoli e Tobin Tax, porta per tipo di prodotti e per tassi d’interesse concretamente realizzati a veri espropri patrimoniali per i piccoli risparmiatori. Perché l’anticipo di 400 milioni sul regime fiscale spalmato in tre anni dei cespiti derivanti dalla rivalutazione dei beni d’impresa – altra perla che non era stata annunciata, ma è apparsa nel decreto per garantire coperture visto che i tagli di spesa ammontano a meno del 50% del suo fabbisogno – è un modo classico per uccidere fiscalmente in culla una misura che doveva dar respiro a mercato immobiliare e investimenti.

Per tacere della sovrattassa retroattiva sulle banche, che ha il suo bel ruolo nell’indurre oggi Intesa e Unicredit a puntare i piedi nella vicenda Alitalia-Etihad, lasciando il governo a sobbarcarsi l’onta di un fallimento del salvataggio a opera degli emiratini.

Le insidie, come si vede, sono molte, e su terreni essenziali. Si può credere che dopo le elezioni europee, in caso di buon successo del Pd a guida Renzi, molte di esse scomparirebbero. Ma un po’ di sano realismo dovrebbe indurre a pensarla diversamente. E’ Renzi per primo, vista la natura “personale” della sua leadership e premiership, che deve trovare una diversa quadra tra gli annunci, che a fini comunicativi funzionano, e i provvedimenti, che al momento vanno meno bene.

Facciamo un ultimo esempio. Cruciale: la riforma della Pubblica Amministrazione. Sindacati e riflessi corporativi sono già all’allarme rosso. Si legge di magistrati apicali pronti a dimettersi in massa per protesta. A Roma, pur sottoposta a vincoli di rientro da parte del decreto che ha ancora una volta salvato le sue finanze, i sindacati continuano a chiedere che il salario accessorio di produttività sia “spalmato” a tutti i dipendenti malgrado le osservazioni in senso opposto del MEF. Il tetto da 239 mila euro per i manager e dirigenti apicali pubblici è stato un buon inizio.

Ma senza decisioni concrete aggiuntive in materia di tetti ai dirigenti di prima e seconda fascia, senza una stima oggettiva degli esuberi della Pa, senza un metodo che consenta da parte del governo di stimare anche quelli della PA periferica attualmente fuor dalla sua portata, senza un criterio preciso di metodo per sostituirne una parte con nuovi innesti tenendo fermo però il risparmio complessivo e dunque senza prepensionamenti ad hoc per i soli pubblici dipendenti, senza tutto questo non si rivede integralmente il costo, l’efficienza e il perimetro della PA come Renzi ripete.

Certo, difficile o impossibile aspettarselo prima delle europee. Ma subito dopo, è il caso che a cominciare dalla PA Renzi non pensi tanto ai gufi della stampa che criticano facendo il loro dovere, ma ai tanti avvoltoi che in Italia difendono lo status quo di vecchie impostazioni. Altrimenti, com’è avvenuto coi governi Berlusconi, Monti e Letta, prevarranno loro ancora una volta. E non sarà per diffidenza dei partner europei, che l’Italia continuerà a restare inadempiente agli impegni assunti tre anni fa.

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