Italia, uscire dall’euro e dichiarare fallimento. Tutte le conseguenze di un default
ROMA (WSI)- Il problema dell’Italia è l’elevato livello di debito pubblico, sopra il 130 per cento del Pil. Pensare che uscire dall’euro apra una strada facile per ridurne l’onere è illusorio. Sia il default sia la monetizzazione avrebbero pesanti conseguenze sull’economia reale.
Il peso del debito
Tra gli oneri che gravano sul nostro sistema economico spicca l’elevato livello di debito pubblico, al di sopra del 130 per cento del Pil. Alti costi di servizio del debito si riflettono in alta tassazione, con conseguenze negative sull’attività economica. Senza una forte crescita del Pil, ridurre l’onere del debito è difficile. Come per qualunque debitore, esistono due modi per uscirne: stringendo la cinghia oppure dichiarando fallimento, rifiutandosi di pagare.
Il ripudio del debito si è verificato molte volte nella storia, generalmente con costi notevoli.
Molti commentatori a favore dell’uscita dall’euro prospettano la “terza via”: la monetizzazione del debito, cioè ripagarlo stampando moneta. Questa possibilità è preclusa dalla partecipazione all’euro, in quanto la politica monetaria è decisa dalla Bce.
Nemmeno riacquistando la “sovranità monetaria” ci riapproprieremmo della possibilità di monetizzare il debito, perché è denominato in euro; ridenominarlo forzosamente in nuove lire (svalutate) equivarrebbe a dichiarare un default sulle obbligazioni precedentemente contratte. Ma anche qualora si riuscisse a monetizzare il debito in euro (per esempio tramite la Bce) sarebbe illusorio ritenerla una intelligente soluzione al problema: la monetizzazione è una forma di sostanziale ripudio e con esso condivide gran parte dei costi. Vediamo perché.
Le conseguenze di un default…
In caso di default sovrano, o ristrutturazione, lo Stato annuncia ai creditori che pagherà solamente una parte dei propri debiti. È ovvio che questa politica comporta una redistribuzione significativa di risorse allo Stato da parte dei detentori del debito pubblico. Chi sono i detentori nel caso dell’Italia?
Il debito è detenuto da banche e altri intermediari finanziari italiani (circa il 35 per cento), dalle famiglie italiane (circa il 13 per cento), dagli investitori esteri (circa il 30 per cento) e da Bce e Banca d’Italia (un altro 10 per cento, si veda la figura sotto di fonte Banca d’Italia). Rinnegare il debito significherebbe infliggere consistenti perdite in conto capitale a questi soggetti, con conseguenze gravi per tutta l’economia.
Rinnegare il debito non vuol direfar pagare il conto a zio Paperone: oggi, meno di un terzo del nostro debito è detenuto da investitori esteri. Significa invece impoverire una parte importante dell’economia italiana, come le famiglie e gli intermediari finanziari. E il fallimento degli intermediari interessa parecchio le famiglie italiane: è presso questi soggetti che detengono la propria ricchezza finanziaria, e se falliscono “le banche” (e le assicurazioni e i fondi pensione, e via dicendo) spariscono gran parte dei loro risparmi e di quelli delle imprese. (1)
Le conseguenze di un default del debito sovrano sono state studiate approfonditamente proprio per la loro pericolosità: quella immediata è il collasso del sistema finanziario, in quanto le banche si ritrovano un patrimonio netto negativo (che, anche in Italia, detengono circa il 30 per cento del debito). Le ripercussioni sull’economia reale dei collassi del sistema finanziario sono state storicamente drammatiche: utilizzando i dati relativi a cento episodi di crisi finanziarie sistemiche si osserva che il prodotto della nazione che ripudia il debito (Pil) cala per un ammontare compreso tra il 10 e il 35 per cento e ci vogliono in media otto anni per ritornare al livello pre-crisi. (2)
La ragione è facile da capire: un’economia che si ritrovi improvvisamente senza intermediari finanziari, e con il risparmio privato fortemente ridotto, non ha risorse per finanziare l’attività di impresa e nemmeno le comuni operazioni di pagamento. Ne deriva un collasso della produzione e degli scambi. L’Italia sta già attraversando una grave crisi finanziaria, aggiungervi un default sul debito sovrano contribuirebbe a spingere la nostra economia ancora più verso il fondo, per forse un altro decennio, prima di uscire a riveder le stelle.
…E quelle della monetizzazione
Monetizzare il debito vorrebbe dire ripagare il debito in scadenza o riacquistare una parte di quello detenuto dai risparmiatori, stampando moneta. Si possono fare diverse ipotesi sui tempi e l’entità della monetizzazione. La più verosimile sarebbe una monetizzazione del debito in scadenza: se il debito venisse monetizzato completamente, ciò porterebbe nel giro di circa sei anni ad aumentare di circa 10 volte la base monetaria: un aumento vicino al 1.000 per cento in sei anni, intorno al 45 per cento all’anno.
Ci sono pochi dubbi che l’enorme aumento della massa monetaria condurrebbe a un proporzionale aumento dei prezzi. Storicamente tassi di crescita elevati della massa monetaria si tramutano in uguali tassi di inflazione. In alternativa, si potrebbe ipotizzare una monetizzazione parziale: tassi di inflazione a due cifre per un decennio contribuirebbero consistentemente a ridurre il valore reale del debito pubblico.
Il punto fondamentale è che una riduzione sostanziale del valore del debito attraverso la monetizzazione avrebbe effetti sull’economia simili a quelli di un default: forti perdite in conto capitale per tutti i detentori di debito pubblico.
Il motivo è semplice: se lo Stato mi deve 100 euro e mi ripaga stampando moneta in una misura tale da raddoppiare il livello dei prezzi (per esempio), mi ritroverò in mano un potere d’acquisto dimezzato. Di fatto questo è un default: è lo stesso che sentirsi dire dallo Stato: dei 100 euro che ti devo, te ne do solo 50 (a prezzi invariati). E, proprio come il default, comporta una riduzione della ricchezza dei cittadini, una crisi finanziaria e un conseguente prolungato periodo di stagnazione.
Al di là di questa similarità fondamentale, vi sono anche delle differenze tra la monetizzazione e il default. Mentre il default colpisce in prima battuta solo i titolari di debito pubblico, un tasso di inflazione elevato influenza una platea molto più vasta di cittadini.
L’inflazione modifica il valore di tutti i contratti di debito stipulati in termini nominali, inclusi quelli fra privati, trasferendo ricchezza dai creditori (che vedono ridursi il valore dei propri crediti) ai debitori. Anche se l’idea di vedere il valore del mio mutuo ridotto dall’inflazione può apparirmi attraente (nel caso abbia un mutuo a tasso fisso), in pratica la riallocazione di risorse che ne deriva costituisce uno shock molto forte per l’economia, che acuisce le conseguenze discusse sopra per il default sul debito pubblico.
Bisogna inoltre considerare che, in mancanza di un meccanismo di indicizzazione dei redditi, l’inflazione attacca direttamente tutti i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati, ad esempio). È per questi motivi che, in generale, l’inflazione ha costi sociali notevoli e pochi hanno nostalgia di quella – alta – che abbiamo sperimentato in Italia negli anni Settanta e Ottanta.
L’avversione feroce dei tedeschi al fenomeno risale proprio all’iper-inflazione sperimentata negli anni Venti durante la repubblica di Weimar, legata per l’appunto alla monetizzazione del debito pubblico.
Un’ultima differenza è che il default darebbe corso a controversie legali, mentre la monetizzazione no, in quanto il debito è una promessa nominale, che verrebbe formalmente rispettata stampando moneta. Tuttavia, nel caso di una fuoriuscita dall’euro anche la ridenominazione del debito in lire porterebbe a complesse dispute legali. L’esempio dell’Argentina e del suo debito in dollari insegna molte cose su quanto complessi possano essere gli strascichi giuridici di una ridenominazione del debito unilaterale, con conseguente esclusione dai principali mercati internazionali per anni.
Non esistono scappatoie indolori
Il livello elevato del debito pubblico di molti paesi sviluppati rischia di diventare insostenibile se la crescita del Pil non aumenta. Ridurre l’onere del debito attraverso operazioni straordinarie può diventare una necessità. Non esistono purtroppo scappatoie indolori.
Pensare che uscire dall’euro apra una strada in discesa per ridurre l’onere del debito pubblico è illusorio. Sia il default che la monetizzazione avrebbero pesanti conseguenze reali, causando una recessione prolungata. Il default avrebbe poi importanti effetti redistributivi fra lo Stato e i detentori del debito (i risparmiatori), mentre una monetizzazione li estenderebbe a tutti i rapporti debitori aventi natura nominale.
(1) La quantità di titoli di Stato nei bilanci bancari è elevata e in grado di compromettere la loro solvibilità in caso di default perché è elevata rispetto al capitale e alle riserve delle banche (vedi la tavola 2.17 del Bollettino economico della Banca d’Italia).
(2) Si vedano Reinhart e Rogoff “Recovery from Financial Crises: Evidence from 100 Episodes”, AEA papers and Proceedings (2014) per le fonti e i dati.
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