NEW YORK (WSI) – Si prova a risolvere un problema, si raggiunge qualche risultato confortante e si scopre che, affrontandolo e sistemandolo, ne abbiamo creato un altro. Per tutto il lungo periodo storico che va dal 1981 al 2008 si è cercato di eliminare l’inflazione e la stagnazione degli anni Settanta e si è raggiunto un buon livello di crescita con prezzi sempre più stabili. Sembrava tutto levigato, ordinato e controllato, ma mentre ci si compiaceva di questi risultati i mercati finanziari, nel festeggiare il mondo nuovo, creavano una bolla che lo avrebbe soffocato.
Dopo la crisi si sono formulati buoni propositi. In alcuni casi le risoluzioni solenni non hanno avuto seguito. Il macroprudenziale, ad esempio, è stato utilizzato troppo, troppo poco oppure male. Dove è stato applicato bene ha creato effetti collaterali negativi.
Il macroprudenziale, la grande promessa del 2009, è il tentativo di modulare meglio i tradizionali strumenti di politica monetaria utilizzando meno le reti a strascico, come i tassi, e servendosi di più dei raggi laser per regolare singoli settori dell’economia. Se ad esempio si verifica una bolla nel solo settore immobiliare, invece di alzare i tassi e colpire inutilmente tutti si può imporre ai compratori di case di ricorrere al mutuo per una quota più piccola e di pagare subito una quota maggiore.
Il macroprudenziale è utilizzato molto e con un certo successo in Cina e a Singapore. È stato utilizzato troppo negli Stati Uniti, dove il mercato della casa è stato penalizzato eccessivamente dalle nuove regole per l’erogazione dei mutui. È stato utilizzato troppo poco nel Regno Unito, che vive oggi una nuova bolla immobiliare.
Sulle banche europee il macroprudenziale è stato applicato in modo decisamente subottimale. Si sono imposti obblighi crescenti di liquidità e capitalizzazione e si è scoperto che le banche, invece di procedere ad aumenti di capitale, riducevano i prestiti alle imprese.
Anche le banche che hanno ricapitalizzato, tuttavia, hanno prestato poco perché c’era scarsa domanda di finanziamenti da parte del settore produttivo.
Anche sul controllo dei mercati finanziari si sono formulati buoni propositi dopo la crisi.
Mai più bolle, si è detto. Daremo agli investitori, hanno dichiarato i policymaker, più informazioni che in passato, saremo trasparenti nella formazione delle nostre decisioni e comunicheremo con largo anticipo le nostre intenzioni così che i mercati trovino il livello corretto dei prezzi in modo razionale e senza volatilità dannosa.
I buoni propositi sono stati in questo caso realizzati. La volatilità, nonostante le difficoltà di una ripresa globale particolarmente debole, è stata modesta e le quotazioni si sono riportate su livelli più che adeguati sull’azionario e probabilmente perfino eccessivi su alcuni comparti dell’obbligazionario.
Lasciati a se stessi, i mercati tendono a procedere in modo inerziale. Se tutto è tranquillo e va nella direzione giusta, la propensione al rischio degli operatori cresce gradualmente giorno dopo giorno e tende a non fermarsi. Perché tenere solo il 20 per cento del portafoglio in strumenti rischiosi se questi crescono in modo regolare e tranquillo? Perché non il 50 o il 100 per cento? E perché non utilizzare la leva e investire al 200 o 500 per cento?
Non sono insolitamente calmi solo gli indici azionari, ma anche i bond e i cambi. William Dudley, il numero tre della Fed, ha espresso preoccupazione. La scarsa volatilità, ha detto, può essere scambiata per solidità e creare un falso senso di sicurezza. Le posizioni rischiano di estendersi troppo e di produrre le condizioni per correzioni improvvise e poco controllabili.
È positivo che la Fed mostri ogni tanto di essere consapevole del fatto che i mercati non vanno mai sottovalutati. Non vediamo però nessun accenno a misure di contenimento dell’esuberanza, né per il presente né per il futuro.
La modulazione del livello dei margini sulle operazioni a leva, uno strumento tipicamente macroprudenziale, non è mai stata discussa e nemmeno menzionata nei verbali del Fomc.
Oltre a questo, la Fed ha tutta l’intenzione di continuare nella linea della trasparenza completa e della comunicazione con larghissimo anticipo delle sue funzioni di reazione e della sua linea di condotta.
E c’è di più. Nel grande dibattito su chi sia oggi per davvero un disoccupato, se cioè un 75enne o un 18enne (o un 35enne che non lavora dal 2008) siano o no da considerare senza lavoro se se ne stanno a casa e non vanno in giro a cercare un impiego, la Fed adotta la posizione più radicale, quella per cui tutti sono disoccupati, anche se negano di esserlo.
In questo il Fomc scavalca anche democratici di provata fede come Alan Krueger, un economista del lavoro che è stato capo dei consiglieri economici di Obama. In uno studio recente, che la Fed ha letto e poi riposto immediatamente nel cassetto, Krueger ha avanzato la tesi che questa ampia zona grigia di non occupati non deprime le retribuzioni degli occupati.
La Fed della Yellen vuole invece procedere a testa bassa nell’azzeramento dei disoccupati ufficiali per potere poi affrontare l’area grigia e ridurne le dimensioni. Il target, a questo punto, non è più il tasso di disoccupazione e nemmeno la dimensione della forza lavoro.
Il target implicito, che economisti come Blanchflower e Posen cominciano a teorizzare apertamente e che molti esponenti del Fomc stanno seriamente considerando, è il livello delle retribuzioni. La politica della Fed, in pratica, rimarrà espansiva fino a che le retribuzioni non avranno iniziato a salire.
Se le cose stanno così (e stanno così) le preoccupazioni di Dudley per l’eccessiva propensione al rischio dei mercati sono destinate a lasciare il tempo che trovano. La Fed, in altre parole, non ha nessuna vera intenzione di mettere qualche granello di sabbia nella marcia tranquilla ma trionfale di bond e azioni.
Si dirà, ma non c’è il tapering? La Fed non sta forse riducendo di 10 miliardi al mese i suoi acquisti di titoli, per azzerarli in ottobre? Certo, il tapering c’è, ma va di pari passo con la riduzione di emissioni da parte del Tesoro, che ha sempre meno disavanzo da finanziare perché l’economia cresce e le entrate fiscali salgono. La Fed acquista meno, il Tesoro emette meno. Alla fine il tapering non pesa in nessun modo sul mercato.
Il corso brillante dei Treasuries nelle ultime settimane, anche nella parte tra i 10 e i 30 anni, ha suscitato parecchie perplessità sui mercati azionari. Ma come, ci si è chiesti, ci raccontiamo dalla mattina alla sera che la ripresa sta accelerando e sarà forte e poi vediamo i trentennali che salgono come se invece si stesse rallentando. Come è possibile?
Per qualche tempo si è cercata una risposta in positivo nell’inflazione più bassa del previsto. Rischiamo la deflazione, ci si è detti, e quindi è giusto che i governativi salgano, portandosi dietro tutto il resto.
Succede però che da tre mesi, a guardare i numeri per davvero, l’inflazione esce più forte delle attese. Mentre pensiamo di essere all’uno e di rischiare di andare a zero, il dato annualizzato degli ultimi tre mesi, come nota perfidamente David Rosenberg, è del 2.3. Rosenberg, che nelle sue previsioni sull’andamento dei prezzi ha un passato pluridecennale impeccabile, è convinto che vedremo il 3 per cento già l’anno prossimo. Con il 3 d’inflazione (solo l’inizio di un lungo trend, a suo parere) la tesi che Bernanke va esponendo nei suoi costosissimi pranzi con grandi gestori (non vedrò mai più i Fed Funds al 4 per cento), trova Rosenberg in disaccordo.
In realtà, una possibilità da considerare seriamente è che l’inflazione risalga nel 2014, nel 2015 e oltre con i Fed Funds che la inseguono solo in parte. I tassi reali, che sono prematuramente risaliti nell’estate scorsa, sono oggi azzerati sul decennale e potrebbero diventare negativi su tutta la curva nei prossimi anni.
Con una Fed che rimane strategicamente molto più espansiva di quanto non pensino i mercati, con una Banca del Giappone che potrebbe ampliare il suo Qe nei prossimi mesi e con una Bce che il 5 giugno non si limiterà ad abbassare i tassi ma ci regalerà qualche altra misura (un Ltro o un acquisto di titoli che non sia ancora un Qe), le condizioni per i mercati azionari, in un anno che già vedrà un’accelerazione della crescita, saranno eccellenti.
Questo non deve però significare l’abbandono delle elementari norme di prudenza, nemmeno per un minuto. L’imponderabile, che è sempre in agguato, ama di passione travolgente i mercati sopravvalutati.
Una zampata dell’orso del 15-20 per cento, perfettamente sopportabile in un portafoglio con rischio controllato, può diventare fatale, se si hanno posizioni a leva, anche nel caso, invero probabile, che la correzione sia solo temporanea.
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