NEW YORK (WSI) – Un chicco di grano, sostiene il megarico Eubulide nel IV secolo avanti Cristo, non è certamente un mucchio di grano. Se un chicco di grano non fa un mucchio, allora nemmeno due chicchi lo fanno. E nemmeno tre, dieci, cento o mille. E allora quando si può cominciare a parlare di un mucchio? Mai? E quale sarebbe, nel caso, il chicco che ha in sé la magica capacità di trasformare in un mucchio quelli che lo hanno preceduto?
Oltre che primo formulatore del paradosso del mentitore, Eubulide è considerato il primo filosofo che abbia mai riflettuto sul paradosso del sorite (soros in greco significa mucchio). Il tema può sembrare eccentrico, ma è da secoli oggetto di controversie logiche e ontologiche che continuano animatissime anche ai nostri giorni e che finiscono diritte, tra l’altro, nelle assunzioni che stanno alla base dei motori di ricerca.
Se la memoria non ci inganna, è 450 punti di Standard and Poor’s fa (quando cioè l’indice stava intorno a 1500) che abbiamo iniziato a sentire la tesi per cui la borsa è in equilibrio, forse nella parte alta dell’equilibrio, ma in ogni caso non ancora cara. Da 1500 siamo passati a 1501, 1502,…., 1950 e la borsa continua a essere definita dalla maggior parte degli osservatori come in equilibrio, forse nella parte alta dell’equilibrio, ma in ogni caso non ancora cara.
Poiché tra l’equilibrato e il caro ci sono certamente di mezzo un mucchio di punti, oggi sappiamo che 450 punti non sono ancora un mucchio e ci chiediamo quale sarà il magico punticino che farà fare al mucchio il vertiginoso salto ontologico dal nulla all’essere.
Certo, si dirà, ma nel frattempo sono saliti gli utili. Vero, ma tra 1500 e 1950 c’è una differenza del 30 per cento e non risulta che gli utili, dal febbraio 2013 (il mese in cui si toccarono i 1500 punti) a oggi, siano saliti del 30 per cento. Qualcuno (il Bureau of Economic Analysis del Dipartimento del Commercio) sostiene addirittura che, togliendo la distorsione degli ammortamenti anticipati (che da quest’anno non saranno più possibili), gli utili sono del’8 per cento più bassi rispetto ad allora. Gli utili più alti, quindi, sono solo quelli riportati agli azionisti (gonfiati dall’acquisto di azioni proprie) e al fisco, non quelli operativi. Certo, il primo trimestre, quello a cui si riferisce il raffronto anno su anno, ha visto i consumatori stare a casa per la neve prendendo lo stesso lo stipendio, ma il dato del Bea fa impressione lo stesso.
Uno dei punti deboli dei ragionamenti soritici è che cessano di avere senso quando si fa una comparazione. Forse è impossibile determinare il momento in cui il mercato diventa caro, ma si può benissimo capire quando un mercato diventa più caro di un altro. Ned Davis Research, ad esempio, non definisce gonfio o pazzesco il rapporto attuale tra il fatturato e la quotazione dell’azione mediana dell’SP 500. Dice solo che è il più alto di tutti i tempi (inclusi, nota perfido Fred Hickey, il 1929, il 2000 e il 2007).
Certamente soritico è invece il tema dell’inflazione. Per la maggior parte degli osservatori, a dire il vero, l’inflazione non esiste proprio (parliamo di America) e semmai c’è il rischio opposto, quello della deflazione. Da quattro mesi, tuttavia, i prezzi stanno aumentando sempre più velocemente, tanto che siamo ormai a una velocità annualizzata superiore al 2 per cento.
C’è uno scostamento curioso tra l’inflazione percepita dagli economisti e quella percepita dagli analisti azionari di settore e dalle borse. I titoli dei media e delle telecomunicazioni salgono perché gli abbonamenti sono sempre più cari (un pacchetto telefono-internet-cable tv costa ormai quasi 200 dollari al mese e ce l’hanno quasi tutti). Le linee aeree salgono in borsa (tra l’altro) perché le compagnie aumentano il prezzo dei biglietti e svalutano le miglia accumulate. Le assicurazioni sanitarie fanno nuovi massimi perché Obamacare fa costare le polizze il 30 per cento in più. I gestori di sale cinematografiche salgono perché vedersi un film con la poltrona comoda e uno spuntino costa ormai 40 dollari. I fondi immobiliari salgono perché gli affitti sono sempre più cari, anche se le statistiche ufficiali (compilate chiedendo ai proprietari di casa a quanto la affitterebbero) calcolano a zero il 30 per cento di Cpi dedicato alle spese per l’abitazione. Le università, dal canto loro, non sono quotate, ma non risulta che iscriversi ad Harvard costi meno o uguale rispetto a cinque anni fa.
Non combattere la Fed, non mettersi contro la volontà delle banche centrali è una vecchia massima di borsa che funziona praticamente sempre. In questi anni, in parte ammiccando e in parte dicendolo chiaramente, le banche centrali hanno suggerito a tutti di comprare in borsa. Chi le ha ascoltate non se ne è pentito. Oggi tutte le banche centrali dicono che vogliono fortissimamente fare salire l’inflazione, come minimo al 2 per cento, ma per essere sicuri del 2 è meglio che ci sia il 3 e se poi ci sarà il 4 o il 5 stiamo pur tranquilli che nessuno si strapperà i capelli.
Chi compra decennali governativi, anche di dubbia qualità, al 2 o al 3 per cento o ha deciso di combattere la Fed, la Bce e tutte le altre banche centrali, oppure pensa che l’inflazione salirà ma non farà male ai suoi bond (che ci sarà cioè un’intensificazione della repressione finanziaria per cui i rendimenti reali saranno sempre più negativi) oppure ancora ritiene, con un ragionamento non banale, che alla prossima recessione o anche solo al prossimo rallentamento vedremo i tassi ancora più bassi di oggi. All’inizio degli anni Ottanta tutte le banche centrali hanno deciso di farla finita con l’inflazione. Non hanno avuto necessariamente successo subito, ma alla fine hanno vinto alla grande. Oggi che tutte vogliono invece l’inflazione molti dubitano, così come molti dubitavano trent’anni fa. Man mano gli indici dei prezzi saliranno molti, soriticamente, sosterranno che se l’uno non è inflazione, nemmeno lo è il due, il tre, il quattro e così via. Come nota del resto David Rosenberg, l’inflazione è un gas inodore.
Sintetizzando, abbiamo provato a dimostrare che le azioni e i bond sono cari. Attenzione, però. Caro non è un marchio di infamia, non è un semaforo rosso che prescrive di vendere e mettersi al ribasso. È un semaforo giallo che può rimanere sullo stesso colore piuttosto a lungo, anche per anni. Possiamo fare tante cose e guadagnare tanti soldi con il giallo. La differenza con il verde è che dopo il verde viene il giallo, mentre dopo il giallo, tipicamente all’improvviso, viene il crash. Oppure, come minimo, viene una spiacevole turbolenza che spinge molti a pasticciare, a vendere dopo la discesa e a ricomprare dopo la risalita. Vivere nel giallo con consapevolezza significa allora tenere posizioni non troppo aggressive e comprare ogni tanto un po’ di protezione, specialmente quando costa pochissimo come adesso.
Oggi tutto sembra calmo e perfetto e forse lo è davvero. Se però a fine anno saremo sotto il 6 per cento di disoccupazione e vicini al 2.5 di inflazione, il dibattito nella Fed (già ripreso in queste ore con un Bullard molto falco) si farà molto più animato e prima o poi innervosirà il mercato.
I prossimi due mesi, che immaginiamo solidi e tranquilli, daranno l’opportunità per alleggerire i portafogli molto esposti al rischio o di costruire comunque intorno a loro protezioni efficaci. Si può andare benissimo in alta quota, ma non in T-shirt e scarpe da ginnastica.
Suggeriamo anche di tenere d’occhio l’Iraq. Da quelle parti non si impressionano troppo se una grande città come Mosul cade in una mattina nelle mani di al-Qaeda. Il problema è che al-Qaeda sembra ora dirigersi verso una delle grandi zone di estrazione del greggio. Se pensiamo ai danni (10 dollari sul prezzo del greggio per tutti questi mesi) provocati dai conflitti intestini in Libia possiamo capire che l’Iraq, che produce a regime più del doppio della Libia, potrebbe procurarci qualche problema. Il gasometro di Vienna Simmering oggi, dopo la ristrutturazione, visto dall’interno.
E dare un contributo a quella cosa che tutti abbiamo deciso di non vedere nel nostro futuro, l’inflazione.