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The Economist: “Quella sensazione di andare a fondo (di nuovo)”

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LONDRA (WSI) – “Solo pochi mesi fa, i leader della zona euro hanno creduto che, avendo calmato la tempesta, si fossero salvati giusto in tempo. Incoraggiati dalla promessa di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, di fare “tutto il possibile” per sostenere la moneta, la fiducia era penetrata di nuovo nel continente. La crescita sembrava tornata, anche se a un ritmo lento.

I Paesi periferici più in difficoltà beneficiarono di una ripresa, dopo salvataggi e misure dolorose per ridurre i deficit di bilancio e migliorare la competitività. La disoccupazione, soprattutto tra i giovani, era ancora disperatamente alta, ma almeno nella maggior parte dei Paesi stava calando. Lo spread si era ridotto drasticamente e i mercati finanziari avevano smesso di scommettere che l’euro sarebbe arrivato alla rottura.

Era un’illusione. Nelle ultime settimane i Paesi della zona euro hanno cominciato ancora una volta ad imbarcare acqua. Il loro PIL ristagna nel secondo trimestre: l’Italia è caduta in recessione vera e propria, il PIL francese è immobile e anche la potente Germania ha visto un inatteso calo della produzione. Il terzo trimestre sembra piuttosto malmesso, in parte perché la zona euro subirà un peso negativo inatteso a causa delle sanzioni occidentali alla Russia.

[ARTICLEIMAGE] Nel frattempo, l’inflazione è scesa a un livello pericolosamente basso, circa lo 0,4%, ben al di sotto dell’obiettivo di circa 2% fissato dalla Banca Centrale Europea, sollevando il timore che l’eurozona nel suo insieme potrebbe cadere preda di una deflazione radicata. I rendimenti dei titoli tedeschi sono in bilico al di sotto dell’1%, un altro presagio di caduta dei prezzi. La zona euro vacilla in netto contrasto con l’America e la Gran Bretagna, le cui economie stanno godendo una crescita sostenuta.

Quella che era iniziata più di quattro anni fa come una crisi bancaria e del debito sovrano si è trasformata in una crisi di crescita che sta avvolgendo le tre maggiori economie. La Germania è sul filo della recessione. La Francia è invischiata nella stagnazione. Il PIL in Italia è appena sopra il livello in cui era quando la moneta unica fu introdotta 15 anni fa. Dal momento che questi tre Paesi rappresentano i due terzi del PIL della zona euro, la crescita in paesi come la Spagna e l’Olanda non riesce a compensare la loro stagnazione.

Le cause alla base dei nuovi mali europei sono tre problemi molto ben consociuti e interconnessi. In primo luogo, vi è una carenza di leader politici con il coraggio e la convinzione di far passare le riforme strutturali per migliorare la competitività e, infine, riattivare la crescita: i grandi Paesi hanno sprecato i due anni guadagnati da Draghi. In secondo luogo, l’opinione pubblica non è convinta della necessità urgente di cambiamenti profondi e radicali. E in terzo luogo, nonostante gli sforzi di Draghi, il quadro monetario e fiscale è troppo stretto, strozza la crescita, il che rende le riforme strutturali più difficili.

Le differenti manifestazioni di questi problemi possono essere viste in tutta la zona euro. Ma il paese che incarna più drammaticamente tutti e tre è la Francia. Questa settimana il suo presidente socialista, François Hollande, è stato costretto a un rimpasto di governo per espellere Arnaud Montebourg, che, pur essendo ministro dell’economia, è stato il critico più accanito da sinistra. Hollande, entrato in carica nel 2012 promettendo un futuro indolore, non è certo un riformatore thatcheriano. Ma poiché ha nominato Manuel Valls come primo ministro a marzo, ha almeno abbracciato il principio di tagli alla spesa pubblica, meno tasse e riforme strutturali.

[ARTICLEIMAGE] In teoria un governo riformista potrebbe fare progressi, ma l’opinione pubblica non è neppure lontanamente preparata per questo. Hollande non è solo profondamente impopolare; a differenza di Matteo Renzi in Italia, che ha coraggiosamente intrapreso (ma non portato a termine) riforme difficili, il presidente francese non è riuscito a convincere gli elettori che il doloroso cambiamento, tra cui una riduzione delle dimensioni dell’amminsitrazione statale, sia inevitabile.

Invece, Montebourg e suoi sodali offrono l’idea accattivante che, se solo la zona euro ripudiasse le sue regole e permettesse maggiore flessibilità sui deficit di bilancio e una spesa pubblica sufficientemente generosa, non saranno necessarie riforme più dolorose, perché l’economia si risolleverebbe miracolosamente con le sue sole forze.

L’argomento di Montebourg è tanto più seducente perché è proprio il terzo problema dell’Europa: eccessiva austerità, in gran parte imposta al continente dalla Germania. Draghi al raduno economico annuale di Jackson Hole ha implicitamente ammesso che la politica fiscale e monetaria nella zona euro è troppo restrittiva. Ha fatto capire di essere a favore di un quantitative easing, che sia l’America e la Gran Bretagna hanno utilizzato, e ha richiesto una politica fiscale che possa incoraggiare la crescita, un messaggio chiaramente rivolto alla cancelliera tedesca Angela Merkel. Lei è il leader che più fermamente insiste sull’attenersi alle regole nell’eurozona in materia di disciplina di bilancio, così come lo è la Bundesbank tedesca che è fortemente contro il quantitative easing.

Nonostante il pessimismo, ci potrebbe essere la possibilità per una buona soluzione. Se Hollande e Renzi possono dimostrare la loro sincerità riguardo le riforme strutturali, Merkel dovrebbe essere disposta a tollerare una politica di bilancio più semplice (compreso un aumento degli investimenti pubblici in Germania) e una politica monetaria più flessibile.

Chiudete gli occhi, e immaginate i tre leader che lavorano con la Commissione Europea per completare il mercato unico e che spingono a un accordo commerciale con gli Stati Uniti. Purtroppo, nel mondo reale, la signora Merkel ha pochi motivi per fidarsi della Francia o dell’Italia: ogni volta che la pressione esterna lo ha permesso, hanno prontamente fatto marcia indietro sulle promesse di riforma. E lei ha appena installato Jean-Claude Juncker, il candidato del “non fare”, come presidente della Commissione Europea.

Per questo sarà difficile. Ma senza una nuova spinta da parte dei leader del continente, la crescita non tornerà e la deflazione potrebbe dilagare. Il Giappone ha subito un decennio perso in termini di crescita dal 1990, e sta ancora lottando. Ma, a differenza del Giappone, l’Europa non è un paese coeso.

Se l’unione monetaria non porta altro che stagnazione, disoccupazione e deflazione alcuni finiranno per votare per un abbandono dell’euro. Grazie alla promessa di Draghi di attutire il colpo della crisi del debito pubblico, i rischi sul mercato finanziario relativi al fatto che si potesse innescare una rottura dell’euro, sono svaniti. Ma il rischio politico che uno o più Paesi decidono di tirarsi fuori dalla moneta unica è in aumento. La crisi dell’euro non è passata; è solo in attesa oltre l’orizzonte.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da The Economist – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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