MILANO (WSI) – Nel documento votato dall’assemblea Pd non c’è, ma l’intenzione del premier, anticipata dal Sole24ore nei giorni scorsi, è confermata: dal 1 gennaio 2015 il governo vorrebbe dare il via libera all’anticipo del Tfr in busta paga. Il premier Matteo Renzi lo ha ribadito anche a Ballarò: «Per uno che guadagna 1300 euro» è il calcolo molto spannometrico, «vuol dire un altro centinaio di euro al mese». L’idea è, come per gli ottanta euro, quella di rilanciare così i consumi, arrivando a dare fino al «50 per cento» della quota che normalmente sarebbe stata accantonata, lasciata in azienda o diretta verso un fondo pensionistico integrativo: più o meno una mensilità all’anno.
Con gli 80 euro, però, c’è una prima grande differenza. Quelli del Tfr sono già soldi del lavoratore, che al lavoratore (con un contratto dipendente, nel privato) sarebbero tornati, una volta interrotto il rapporto con il datore di lavoro, vuoi per licenziamento, vuoi per l’arrivo dell’età pensionabile. Soldi che sarebbero comunque arrivati al lavoratore, per di più indicizzati e sottoposti a una tassazione più favorevole. Matematico, il professor Beppe Scienza è uno studioso di risparmio e previdenza. Insegna all’Università di Torino, ed è autore di un libro in cui, nel 2007, sosteneva «conti alla mano», perché fosse meglio non investire il Tfr nei fondi pensione, come suggerito dall’ultima riforma.
Dell’intenzione dichiarata da Matteo Renzi durante l’ultima direzione del Pd all’Espresso dice: «È una furbata». E ricorda: «lo dissi anche a Landini», al segretario della Fiom, «quando tirò fuori la stessa idea».
Per Scienza «il Tfr è uno degli investimenti più sicuri che possa fare un lavoratore». Spiega il professore: «Il Tfr è una forma di investimento senza intermediari che prendono qualcosa, è una forma previdenziale a costi di gestione zero, è un accantonamento che garantisce il potere d’acquisto». La quota mensile che viene infatti fatta accantonare al lavoratore dipendente «viene rivalutata all’1,5 per cento, più il 75 per cento dell’inflazione, e questo valore viene tassato all’11 per cento». «Meno dei titoli di Stato», che sono al 12,5.
Le aziende poi, si lamentano del fatto che per le loro casse già in difficoltà potrebbe esser il colpo di grazia. Ancora Scienza conferma le preoccupazioni espresse anche da Confindustria: «L’anticipo in busta paga può rappresentare un problema per le casse delle aziende», sì, e non tanto perché dovrebbero privarsi di una fonte di finanziamento, ma anche e soprattutto perché «quella forma di finanziamento, come è, dichiaratamente, il Tfr, è per l’azienda un prestito ad un tasso vantaggiosissimo, senza paragoni». Matteo Renzi per questo dice di avere la soluzione: «Stiamo ragionando» spiega ancora a Ballarò, «sul fatto che l’Abi, l’associazione delle banche, possa dare i soldi che arrivano dall’Europa, quelli che chiamiamo i soldi di Draghi, esattamente alle piccole imprese per garantire liquidità».
Se il Tfr è però per il lavoratore «un investimento sicuro», come dice Scienza, «molto più sicuro dei fondi pensione», per le aziende è una risorsa importante, che difficilmente si può immaginare di sostituire. Lo è per le aziende e per l’Inps, come nota il Corriere della Sera, nell’editoriale di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti: «Gli accantonamenti annuali per il Tfr ammontano a 25 miliardi. Di questi, 5,2 confluiscono nella previdenza complementare, 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti all’Inps e ben 14 sono finanziamenti per le piccole imprese». Insomma, si verrebbero a creare «tre buchi», tra cui quello dell’Inps, già notoriamente in difficoltà, a cui verrebbero a mancare, secondo il Corriere, «tre miliardi l’anno».
Se dovesse passare l’idea del governo, a cui anche la Cgil ha detto di no, ci sarebbe poi il problema della tassazione. Lo ha notato, tra gli altri, Stefano Fassina, della minoranza del Pd.
Ai microfoni di La7 il deputato ha detto che è contrario all’anticipo per due motivi: «Primo perché si toglie liquidità alle aziende in un momento così difficile, e secondo perché quello è un risparmio dei lavoratori che, se lo metti in busta paga, va a una aliquota marginale e la tassazione è molto più elevata». «È vero» dice ancora all’Espresso Beppe Scienza, «ma solo per chi ha un’aliquota di reddito più elevata. Per i redditi bassi, tassati al 23 per cento, non cambia nulla». Cambia il fatto, ovviamente, che «il meccanismo del Tfr permette di capitalizzare la cifra lorda e pagare solo alla fine». E il beneficio di questo meccanismo, togliendo il 50 per cento ogni mese, si ridurrebbe. Salirebbe invece, ovviamente, il gettito per lo Stato: una proiezione de lavoce.info arriva ad assicurare anche 2,8 miliardi di non se il 50 per cento dei lavoratori scegliesse la via indicata da Renzi. Anche in questo caso, però, sarebbe parzialmente un anticipo: se tassi il Tfr in busta paga non ci sarà Tfr da tassare alla fine.
Nel dibattito, poi, c’è chi vede una battaglia politica, per limitare uno Stato che “costringe” il lavoratore a un risparmio, privandolo di una cifra di cui magari avrebbe preferito disporre liberamente. «Si può vederla così», conferma Beppe Scienza, «perché effettivamente è un risparmio forzoso, quello del Tfr». «Ma non mi sembra così grave», aggiunge: «Ci son cose più brutte che costringere un lavoratore a risparmiare e ad assicurarsi un investimento garantito». «Perché» si chiede Scienza, «agli iperliberisti, ma anche ai sindacati, vanno bene i fondi pensione, che bloccano lo stesso il capitale per 40 anni ma che sono meno sicuri, e non va bene il Tfr?».
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