ROMA (WSI) – Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».
Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?
Nuovi posti a costo zero?
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato?
Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì.
L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più?
Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali.
Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali).
L’idea del job-Italia è di consentire alle aziende di creare nuovi posti di lavoro, e ai lavoratori di percepire l’80% del costo aziendale anziché il 50% circa come attualmente succede per la maggior parte dei contratti (vedi grafico). Questa presentazione illustra solo alcuni principi generali, che richiedono di essere tradotti in un disegno di legge.
Come funziona
Fatto 100 il costo aziendale, il netto percepito in busta paga è pari a 80. Simmetricamente: fatto 100 il netto in busta paga, il costo aziendale è 125. La differenza fra costo aziendale e netto in busta paga viene automaticamente destinata a due impieghi:
a) pagamento integrale dell’Irpef dovuta
b) contributi sociali a Inps e Inail
L’importo versato a Inps e Inail è esattamente pari alla somma che rimane dopo il pagamento integrale dell’Irpef. La retribuzione netta in busta paga non può essere inferiore a 10 mila euro l’anno (il job-Italia non è un mini-job alla tedesca) e non può superare i 20 mila euro l’anno.
Un esempio
Con il job-Italia più povero (10 mila euro annui netti in busta paga) il lavoratore percepisce 12.500 euro lordi così suddivisi: 10.000 in busta paga, 700 pagamento Irpef, 1.800 accantonati a fini pensionistici (Inps).
Il costo aziendale è 12.500 euro. Il lavoratore percepisce subito, in busta paga, 10.000 euro, ossia l’80% del costo aziendale.
I contributi sociali mancanti vengono pagati dallo Stato.
Il job-Italia si finanzia da sé
Si potrebbe pensare che il job-Italia riduca il gettito della Pubblica Amministrazione, visto che il nuovo contratto abbatte fortemente i contributi sociali, che corrispondono a circa il 30% delle entrate totali. Ma non è così. Per capire perché, bisogna considerare due circostanze.
La prima è che i posti di lavoro incrementali (creati da aziende che aumentano l’occupazione) sono una frazione molto modesta delle assunzioni totali, che nella stragrande maggioranza dei casi sono semplici rinnovi di contratti precedenti o sostituzioni di lavoratori andati in pensione. Questo significa che l’eventuale perdita di gettito riguarda comunque una frazione modesta delle assunzioni totali. Giusto per dare un ordine di grandezza: i posti di lavoro incrementali sono 3-400 mila all’anno, su un totale di 10 milioni di assunzioni.
La seconda circostanza da considerare è che ogni nuovo posto di lavoro genera un valore aggiunto, di cui il salario è solo una componente. Su quel valore aggiunto non gravano solo i contributi sociali (che con il job-Italia si riducono fortemente), ma anche tutte le tasse che, come cittadini e come aziende, normalmente paghiamo alla Pubblica Amministrazione: Irpef, Iva, Ires, Irap, solo per menzionare le quattro più importanti. E le tasse, con il job-Italia, non spariscono affatto, e pesano molto di più (fra il doppio e il triplo) dei contributi sociali. Per capire come mai il job-Italia aumenta il gettito, facciamo un esempio concreto, il più prudente possibile, dove per “prudente” intendiamo il più pessimistico per le entrate della pubblica Amministrazione. In questo scenario il moltiplicatore del job-Italia, che dalle nostre ricerche risulta 2.64, è ridotto a 2, e la quota del gettito contributivo sulle entrate totali è posta eguale a 1/3.
Per fissare le idee, supponiamo che non ci sia il job-Italia e che le imprese che aumentano l’occupazione creino 100 mila nuovi posti di lavoro (scenario 0). In questo caso la Pubblica Amministrazione incasserà circa 1 miliardo di euro in contributi sociali e circa 2 miliardi di euro sotto forma di altre tasse.
Proviamo ora a introdurre il job-Italia (scenario 1). I nuovi posti di lavoro passano da 100 a 200 mila (perché la reattività delle imprese è 2), il gettito contributivo diventa molto piccolo (per semplicità lo poniamo eguale a zero), mentre il gettito delle altre tasse passa da 2 a 4.
Dunque, prima la Pubblica Amministrazione incassava 1 miliardo di contributi e 2 di altre entrate, ossia 3 miliardi. Ora incassa 4 miliardi (di entrate non contributive), dunque 1 miliardo in più. Che fare?
La soluzione più semplice è usare 2 dei 4 miliardi per assicurare una contribuzione piena a tutti i lavoratori con-job-Italia, che nel frattempo sono passati da 100 a 200 mila, e quindi non costano 1 miliardo di contributi ma ne costano 2 (scenario 2). Quel che avanza, 2 miliardi, è esattamente eguale a quel che la Pubblica Amministrazione incassava prima, sotto forma di altre entrate.
L’unica differenza fra lo scenario 0 (senza job-Italia) e lo scenario 2 (con job-Italia e redistribuzione del gettito) è che ora abbiamo 100 mila posti di lavoro in più, tutti perfettamente tutelati come prima.
Quali aziende possono attivarlo
Il job-Italia è un contratto riservato alle aziende, di qualsiasi forma giuridica, che incrementano il numero di occupati. Per lavoratori “occupati” si intendono i lavoratori dipendenti in senso proprio (compresi gli apprendisti) e i CoCoPro; dal computo degli occupati sono invece esclusi gli stagisti e le partite Iva.
Il nuovo contratto può essere attivato per un numero di lavoratori pari all’incremento occupazionale annuo. Se, ad esempio, fra il 2014 e il 2015 un’azienda passa da 10 dipendenti a 12 può attivare 2 job-Italia, perché ha incrementato l’occupazione di 2 unità. Dopo il primo anno il job-Italia può essere rinnovato per un periodo massimo di 3 anni, purché l’azienda che nel primo anno ha aumentato l’occupazione non la diminuisca nel periodo di rinnovo del job-Italia.
Durata del contratto
Il job-Italia è un contratto a tempo determinato o a tempo indeterminato con durata minima di 1 anno. Nel caso esso sia a tempo determinato la sua durata massima è di 4 anni. Nel caso sia a tempo indeterminato, al temine del 4° anno si trasforma automaticamente in un contratto ordinario a tempo indeterminato, con tutti gli oneri connessi.
[ARTICLEIMAGE]
Quali lavoratori possono usufruirne
Il job-Italia non è riservato a categorie particolari di soggetti. Chiunque può essere assunto con il job-Italia, anche da aziende differenti in periodi differenti.
L’unico caso in cui un lavoratore non può essere assunto con un contratto di job-Italia è quello in cui abbia già usufruito di uno o più contratti job-Italia per un periodo complessivo superiore a 3 anni (in tal caso aggiungere 1 anno ai 3 anni passati farebbe sforare il tetto complessivo dei 4 anni).
Sanzioni contro l’uso improprio
La legge prevede sanzioni nel caso di uso improprio del job-Italia. Per uso improprio si intendono tutti i casi nei quali l’incremento occupazionale è fittizio. Ad esempio: la singola azienda aumenta l’occupazione ma una o più aziende “cugine”, controllate dal medesimo soggetto, la riducono; l’azienda riduce l’occupazione nell’anno t, per poterla aumentare nell’anno t+1 usufruendo del job-Italia; eccetera.
Estensioni
Nulla impedisce di estendere il job-Italia alle imprese di nuova costituzione. In questo caso il legislatore dovrà essere particolarmente attento ad evitare gli abusi.
Si può prevedere, ad esempio, che nel caso delle aziende di nuova costituzione, il job-Italia possa essere attivato solo se l’azienda assume un soggetto alla sua prima occupazione o un lavoratore non occupato da almeno 1 anno, in modo da evitare il caso di aziende che chiudono e rinascono al solo fine di usufruire del job-Italia.
Lo scopo fondamentale del job-Italia, infatti, è quello di creare nuova occupazione.
Copyright © La Stampa. All rights reserved