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Euro sotto $1,18. Verso parità? Ma il dollaro forte spaventa gli emergenti

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ROMA (WSI) – Euro sotto pressione, aggiorna i minimi nei confronti del dollaro e buca anche la soglia di $1,18 per la prima volta dal dicembre del 2005, scendendo fino a $1,1792.

A provocare gli smobilizzi sulla moneta unica, è ancora il dato relativo all’inflazione dell’Eurozona pubblicato nella giornata di ieri, che ha confermato i timori sullo spettro della deflazione. Di fatto, l’indice dei prezzi al consumo è sceso in Eurozona al di sotto dello zero per la prima volta dal 2009, portando così gli investitori a scommettere su un QE della Bce imminente.

Euro verso la parità con il dollaro? Stando a quanto riporta il sito Cnbc, l’ultima volta che l’euro oscillò attorno a $1 o a valori anche più bassi fu nel novembre del 2002. Ancora prima, la valuta era scesa sotto la parità nel suo primo anno di vota, ovvero a fine 1999, ed era stato scambiato a 84 centesimi di dollaro nel 2000, per poi puntare verso l’alto. Nella maggior parte del 2014, l’euro è rimasto sopra $1,30, per poi perdere -2,4% dall’inizio del 2015.

La palla passa ora alla Bce, che si riunirà per la prima volta quest’anno il prossimo 22 gennaio.

Intanto Paolo Cardenà, Private Banker dei maggiori Gruppi Bancari italiani, scrive nel suo sito un articolo intitolato: “Se il dollaro forte fa paura ai paesi emergenti”, ricordando come la politica ultra espansiva della Federal Reserve abbia “impresso una forte caduta dei rendimenti obbligazionari, spingendo gli investitori a cercare altrove rendimenti più appetibili”.

Il risultato è che “i paesi emergenti hanno attratto capitali con emissioni di bond, soddisfacendo così chi era in cerca di rendimenti più attraenti. Le emissioni obbligazionarie in valuta estera, dal 2008 in avanti, hanno conosciuto un forte incremento e si stima che queste valgano circa 6000 miliardi di dollari”.

“Il problema – continua Cardenà – è che da quando la Fed ha dato inizio all’exit strategy dalla politica monetaria fortemente accomodante, complice anche una robusta crescita degli Stati Uniti e le attese per una nuova fase (seppur cauta) di rialzo dei tassi americani, si è determinato un forte deflusso di capitali dai paesi emergenti ed il conseguente deprezzamento delle valute emergenti, con l’ovvia conseguenza che molti debiti in valuta estera sono divenuti più onerosi e in alcuni casi meno sostenibili proprio per via di valute locali svalutate”.

Proseguendo: “Benché, quelle dei paesi emergenti, nella maggior parte dei casi, siano realtà con bassi livelli di indebitamento sovrano, negli ultimi anni hanno vissuto una forte espansione determinata dall’incremento dell’indebitamento privato. Ne consegue che le imprese, nella migliore delle ipotesi, dovranno tagliare i costi per rendere le loro attività più profittevoli, in modo che possano avere maggiori margini idonei a smaltire l’indebitamento in valuta forte. Nei casi più estremi, invece, gli stati dovranno intervenire per soccorre attività altrimenti condannate al dissesto, con ovvie ripercussioni sul debito pubblico e sui rispettivi bilanci che, nel caso di paesi produttori di petrolio, sono già gravati dall’onere derivante dalla caduta dei prezzi del petrolio, che impatterà significativamente sulla crescita e quindi sulle politiche fiscali che tenderanno ad irrigidirsi”.

Di conseguenza, “tutto ciò determinerà (sta determinando) una minore domanda da parte delle economie emergenti – che sono state motore di sviluppo negli ultimi anni – con ovvie ricadute sulla crescita globale che, non a caso, è stimata a ritmi ben più moderati rispetto a quelli degli ultimi anni”. (Lna)

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