ROMA (WSI) – Non solo “i prezzi del petrolio non risaliranno sopra $100 per il prossimo decennio o per più tempo ancora. Continuo a prevedere che i prezzi scenderanno nei prossimi anni tra $10 e $20. E questo perchè gran parte dell’industria petrolifera, oggi, si regge su un miraggio”. Parla così Harry Dent, fondatore di Dent Research e giornalista di economia e mercati, commentando il crollo delle quotazioni di crude (riferimento ai futures scambiati a New York) che, nell’ultimo anno, sono scivolate da $115 a $43.
“Quando i prezzi fecero crash da $147 a $32 nell’arco di qualche mese, nel 2008, la ripresa artificiale permise loro, entro il 2013, di risalire a $115. Ma questo avvenne grazie ai QE (della Fed) e agli stimoli globali”.
Questi fattori, uniti al calo dei tassi sui junk bond (bond spazzatura), aiutarono infatti a lanciare la “rivoluzione del fracking” negli Stati Uniti. “I tassi scesero dal 10% circa al 5,5%, e le società di trivellazione ne approfittarono per finanziare le loro operazioni, mentre gli investitori puntano $1 trilione e più nel settore”.
Dent aggiunge: “Grazie alle condizioni di un’economia globale drogata, gli Stati Uniti si trasformarono (in modo temporaneo) da uno tra i principali paesi importatori di petrolio a uno dei principali produttori”, generando il fenomeno dell’eccesso di offerta. Ma a un tale squilibrio non hanno contribuito solo gli Stati Uniti, attraverso l’incremento di produzione di quattro milioni di barili al giorno, dal 2009.
Dal 1996, la produzione globale è balzata infatti di 15 milioni di barili al giorno circa.
Da quell’anno, la Russia ha aggiunto 4 milioni di barili al giorno. Cina e Canada insieme ne hanno aggiunti 2,5 milioni. E dal 2002, l’Iraq e l’Arabia Saudita ne hanno aggiunti, ciascuno, due milioni.
Il risultato è che l’esperto prevede un ulteriore crollo delle quotazioni tra $10 e $20 tra il 2020 e il 2023. La maggior parte della flessione avverrà “all’incirca entro l’inizio del 2017, insieme a un maggiore crac economico e di mercato”. Successivamente è possibile che i prezzi torneranno a $40.
“Tale collasso costringerà l’industria petrolifera ad attraversare una massiccia fase di consolidamento che colpirà le società di tutto il mondo. Per gli Stati Uniti, dimenticatevi dunque della creazione di posti di lavoro superiore a 200.000 unità a cui abbiamo assistito. Gran parte di quella crescita proviene infatti da questo settore. E ciò significa che ora non è il momento di investire sul petrolio”.
E proprio a tal proposito, in un mercato i cui attori hanno relazioni spesso tese sul fronte geopolitico, la Russia è diventata ufficialmente il primo fornitore di petrolio della Cina, scavalcando l’Arabia Saudita.
Stando a quanto riportato da Bloomberg, “secondo i dati inviati per email dalle autorità doganali di Pechino, la Cina ha importato un valore record di 3,92 milioni di tonnellate dalla sua vicina del nord a maggio, per un ammontare equivalente a 927.0000 barili al giorno, in rialzo +20% rispetto allo scorso mese. Le vendite di petrolio saudita sono crollate del 42% da aprile, a 3,05 milioni”. (Lna)