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Emergenti: la terza ondata della crisi del 2008, visualizzata

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NEW YORK (WSI) – Prima c’è stata la crisi dei mutui subprime in Usa poi quella del debito europeo. Ora è la volta di quella dei mercati emergenti.

Goldman Sachs l’ha ribattezzata la terza ondata della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Prima ha toccato gli Stati Uniti, poi si è spostata a Est in Eurozona e ora sta coinvolgendo i paesi asiatici e in via di Sviluppo. Tranne l’India tutti i principali Stati della regione stanno vivendo un rallentamento economico.

Se la crescita ha subito un rallentamento, è il debito a preoccupare ancora di più: si parla di 50 mila miliardi di dollari contratto al di fuori dal settore finanziario, la maggior parte del quale è detenuto dalle aziende del mondo in via di industrializzazione.

Gli ultimi anni di politiche monetarie accomondanti aggressive da parte delle banche centrali hanno fatto affluire nei mercati emergenti enormi flussi di capitali. Denaro a basso costo è stato preso a prestito per investire in questi paesi, dove la crescita progrediva a passo spedito rispetto all’Occidente.
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L’epoca d’oro sta volgendo al termine e ora si registra il processo inverso. Il mondo in via di industrializzazione è in piena crisi.

Il cuore delle attività degli emergenti — le materie prime – sono balzate di prezzo negli anni 2000. Anche dopo lo scoppio della crisi finanziaria sette anni fa, le commodities sono saliti fino alla metà del 2011. Da allora, però, i prezzi sono scesi di circa il 50%.
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Goldman Sachs riferisce che gli alti livelli di rischi legati al debito potrebbero fare entrare i paesi in via di Sviluppo in un vortice che minaccia la crescita mondiale. Non è solo la loro preoccupazione, è proprio il timore numero uno condiviso da mercati e analisti di tutto il pianeta.

A crescere a un ritmo particolarmente sostenuto sono stati i debiti in Cina. In rapporo al Pil, il debito nel 2007 era pari al 121%. Oggi è più del doppio: 282%.
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Il tutto mentre la crescita della seconda economia al mondo ha accusato uan frenata. Il Pil è visto aumentare del 6% nel 2017, una percentuale che per l’Eurozona sarebbe un miraggio, ma per la Cina sono i minimi pluridecennali.

Quella di Macquarie (vedi tabella allegata) è anche una delle stime più ottimiste in circolazione. Altri economisti pensano che la trasformazione in atto nel paese, dove le autorità hanno perso il controllo della situazione, ridurrà i tassi di crescita ancora di più.

(DaC)