NEW YORK (WSI) – ll messaggio che la Federal Reserve ci ha mandato è stato almeno parzialmente inatteso e sicuramente più incisivo. La volontà di alzare quanto prima, da parte del core del comitato (Yellen-Fischer-Dudley, a cui dobbiamo necessariamente guardare) è assolutamente presente e l’asticella da superare per essere in condizioni di farlo non è particolarmente alta.
Le condizioni dell’economia globale sembrano non destare al momento preoccupazioni (a dimostrazione che è più la turbolenza sui mercati finanziari che la scarsa crescita reale a tener sveglia la notte Janet Yellen) e a livello domestico la sensazione è che, ormai raggiunto un tasso di disoccupazione storicamente basso (5.1%-5.2%) possa bastare una creazione modesta di posti di lavoro (diciamo Payrolls intorno ai 150k senza dover necessariamente ambire ai 200k/mese degli ultimi trimestri) per dare inizio ad un processo di normalizzazione monetaria.
La curva dei tassi ne ha preso atto e le probabilità implicite che a lungo erano rimaste tra ¼ e 1/3 per un rialzo a dicembre sono balzate a un salomonico 50%. Vale la pena però sottolineare un paio di aspetti. Il timore che alzare possa eventualmente essere un policy-mistake (a là ECB nel 2008), perché la stessa economia Usa non sarà abbastanza forte per sopportarlo o perché la crescita globale non sarà in grado di affrontare gli inevitabili ulteriori guadagni del dollaro (questi i due temi principali sostenuti da chi vede come un errore il perseguire una forma di ‘normalizzazione’ della politica monetaria a stelle e strisce) al momento non traspare nella price-action: che la curva Usa veda i rendimenti salire anche nella parte lunga (e che non ci sia un’ulteriore discesa nelle aspettative di inflazione) fornisce, almeno per ora, questo tipo di messaggio rassicurante, coerente con mercati azionari che non vacillano.
Ci sono state nelle ultime sessioni fase sia di steepening sia di ‘flattening’ ma in ogni caso i rendimenti della parte a lunga della curva non hanno rinunciato a salire. Ovviamente questa percezione che un rialzo di 25bp sia giustificato e sostenibile potrà facilmente cambiare se i dati delle prossime settimane saranno deboli (e la Fed non darà chiari segni di voler desistere o attendere) ma per il momento si può trarre la conclusione che il mercato si fidi del giudizio di Yellen e colleghi.
Che il mercato non si sia spaventato più di tanto è implicito nel movimento della parte a breve della curva. Le aspettative per un rialzo dei tassi a dicembre si sono subito spostate significativamente ad un salomonico 50%. Questo ha fatto aggiungere un mezzo rialzo (i.e. 12.5 bp) a fine 2016 ma ha lasciato il ritmo successivo invariato, 50bp all’anno per il 2017 e il 2018.
Il ritmo da lumaca di questo ciclo di normalizzazione (rassicurazione fondamentale per l’investitore che continua a vedere un’economia globale fragile) non è insomma stato messo in dubbio dal FOMC di mercoledì, causa ed effetto al tempo stesso della scarsa coda di volatilità che la variazione (perlomeno percepita) nel messaggio della Fed ha generato.
Intanto, mentre i dati macro non entusiasmano (sia a livello globale sia in US) ma non danno neanche l’impressione del crollo imminente che si era temuto ad agosto – settembre (con l’aggravante di qualche singolo dramma come Glencore e Volkswagen), è ormai molto avanzata la stagione ‘micro’ (i.e. trimestrali) che, parimenti, non sta dando indicazioni chiare né agli ottimisti e né ai pessimisti.
Si conferma più che mai la tendenza degli ultimi trimestri a battere facilmente le stime degli utili (adeguatamente abbassate nei mesi precedenti) ma con ben maggiore difficoltà quelle dei ricavi. Finora hanno riportato 341 nomi dell’S&P 500. La crescita degli utili y/y è dell’1.7% (battono le stime il 73%) mentre quella dei ricavi è – 5.8% (battono le stime il 44%). I numeri migliorano in maniera evidente (+9.6% e +0.6%) se non consideriamo le società del settore energetico.