ROMA (WSI) – Quanto è grave la situazione in cui versano le banche italiane? O meglio: la situazione è così grave come quella presentata dai mercati in queste ultime sessioni, o si tratta di attacchi speculativi non giustificati? E come stanno messe le banche italiane rispetto a quelle europee?
Il problema si riassume in due parole ben precise, di cui si parla da anni: ‘crediti deteriorati‘. Vengono anche definiti NPL (non performing loans) e sono crediti che la banca vanta verso terzi, il cui rimborso è incerto, in quanto i soggetti debitori versano in uno stato di insolvenza o non sono comunque capaci di rimborsare le somme che hanno preso in prestito.
Si tratta insomma di prestiti che la banca rischia di non rivedere più: a fronte di tale rischio, gli istituti devono in base alla regolamentazione vigente ricorrere agli accantonamenti, ovvero accantonare riserve per far fronte al rischio di future perdite legate ai crediti erogati. L’ammontare delle riserve deve essere adeguato, sia in termini di rischio dei crediti che della loro condizione.
Essenziale è dunque la capacità delle banche di avere a disposizione una sufficiente copertura dei crediti deteriorati.
Ora, stando a quanto trapela da un’indagine del Sole 24 Ore , emerge che per le banche italiane il problema non è tanto il tasso di copertura dei crediti deteriorati, quanto il tempo di recupero dei crediti stessi. Come confermato dalla stessa Bankitalia nella relazione annuale del 2015 di Palazzo Koch:
I “tempi lunghi e le incertezze sugli esiti delle crisi di impresa favoriscono l’accumulazione delle partite deteriorate nei bilanci degli intermediari e si riflettono negativamente sulla loro capacità di erogazione del credito”, a fronte di un contesto in cui “negli anni della crisi il numero di procedure concorsuali aperte (fallimentari e concordatarie) è significativamente aumentato”. Bankitalia confermava insomma che “l’elevata consistenza delle partite deteriorate risente dei tempi di recupero dei crediti, significativamente più lunghi in Italia che all’estero“.
E di fatto, precisa l’articolo del Sole, “fino al 2012 ci volevano 18 anni – 18 bilanci – per metterci definitivamente una pietra sopra”. Così il quotidiano finanziario: “Aggiunti i tempi di recupero della fase precedente – i famosi 7-8 anni di media – non era difficile cioè per le banche italiane trascorrere un quarto di secolo a piangere sul latte versato. A valere dall’esercizio 2015 quest’ulteriore anomalia nel quadro europeo è stata eliminata e almeno per il Fisco le partite perse, d’ora in poi, potranno essere digerite in un anno, come avviene già di prassi altrove”.
Sta di fatto che per le banche italiane i crediti deteriorati si sono accumulati nel corso degli anni, portando le “sole sofferenze (che sono i crediti più difficili da riscuotere in assoluto, nella più ampia categoria dei crediti deteriorati) a balzare “dai 42,8 miliardi del 2008 – primo anno di crisi – ai 195,3 miliardi di metà 2015, per arrivare a superare oggi quota 200 miliardi“. (tutti i crediti deteriorati sono pari a circa 350 miliardi).
Il problema, in definitiva non è il tasso di copertura, pari al 46% per gli istituti quotati a Piazza Affari e addirittura vicino all’88% se si considerano anche le garanzie collaterali. Il vero problema è il tempo che le banche impiegano per recuperare i crediti.
A ciò si aggiunge un altro fatto: Il Sole 24 Ore fa notare che, nel momento in cui “si va a confrontare l’incidenza delle partite deteriorate sul totale dei prestiti o sul capitale degli istituti”, emerge che i “crediti deteriorati netti (al netto cioè degli accontonamenti) pesano mediamente per l’11,3% sul totale dei crediti verso la clientela delle banche quotate a Piazza Affari e solo il 3,3% per i big europei, che sono in grado di smaltire più rapidamente le “partite perse”, facendole così scomparire dalla rappresentazione contabile. Analogamente, il peso sul patrimonio netto tangibile che è inferiore del 30% nel paniere continentale (29,3%) è del 106,7% per le quotate tricolori”.
Infine, da non sottovalutare l’esposizione ai debiti sovrani, che hanno ingolfato per tanti anni le banche italiane, rendendole particolarmente a rischio in caso di attacchi speculativi. E proprio nelle ultime ore, per l’intero sistema bancario, è trapelato un altro dettaglio.
Un funzionario Ue ha fatto notare infatti che “la discussione sulla riduzione dei rischi bancari e in particolare quella relativa alla diminuzione dell’esposizione ai titoli del debito sovrano” è appena cominciata e se ne occupa un comitato tecnico specifico”. Queste discussioni stanno avvenendo di pari passo con il lavoro, a livello globale, del Comitato di Basilea. “Il comitato tecnico sta analizzando diverse opzioni e le relative valutazioni di impatto”.
Ci si chiede a tal proposito come le banche italiane intendano muoversi su tal fronte, visto che negli anni della crisi dei debiti sovrani si sono confermate tra le più esposte ai titoli del debito pubblico.
L’esposizione delle banche italiane verso i titoli sovrani si attestava nel 2014 a 407 miliardi di euro , il 10% circa degli asset totali e in deciso rialzo dal 4,6% della fine del 2008.
E almeno fino alla fine di marzo del 2015, i titoli di debito pubblico incidevano ancora sugli asset totali delle banche per il 10%, per un valore di ancora vicino ai 400 miliardi.