ROMA (WSI) – L’incredibile crescita economica della Cina? Potrebbe essere una bugia colossale, tutta basata sul modello sovietico, che rischia di creare un’ondata di panico sui mercati. Boom del Pil a due cifre: ormai il mondo intero si era abituato a una crescita di almeno +10% del prodotto interno lordo cinese. Già riuscire a digerire un rialzo di appena +6,9% nel 2015 è stato per i mercati un colpo.
Qualcuno ha anche puntato il dito contro la drammatizzazione con cui il dato è stato commentato. E di fatto, una crescita economica a un ritmo del genere è pura utopia, soprattutto se si pensa agli Usa e all’Eurozona.
E tuttavia, il dubbio che i dati economici della Cina siano ritoccati, non è mai rientrato. Ora saltano fuori nuovi dati che non vengono dai canali ufficiali e che sono decisamente più negativi.
A riportarli è il Conference Board, associazione di ricerca indipendente e globale, come si presenta nel sito, che ha deciso di utilizzare altri parametri per misurare la crescita della seconda economia al mondo. Risultato: la differenza tra i numeri è talmente significativa che la banca di investimenti australiana Macquarie li ha messi a confronto in diversi grafici.
Tra questi, quello in cui il ritmo di crescita apparentemente riportato l’anno scorso, appunto il rialzo +6,9%, viene paragonato con quello risultante dall’utilizzo di parametri considerati più obiettivi.
Ebbene, la crescita del Pil risulta quasi dimezzata: al 3,7%.
I parametri adottati dall’istituto si basano sulle stime che sono state elaborate da due professori cinesi di economia; si tratta del professore Wu e del professore Maddison. La differenza consiste nel sistema che la Cina adotta per raccogliere i dati statistici.
Sono almeno dieci anni che la Cina sta gradualmente abbandonando (dunque non ha ancora del tutto abbandonato) il sistema sovietico di raccolta dati che si basa sul modello della produzione noto come ‘Material Product System’ (MPS), ovvero sul valore dei beni prodotti da diversi settori, calcolato da agenzie locali.
Obiettivo di Pechino, almeno in via ufficiale, è quello di adottare il sistema contabile riconosciuto a livello globale (l’SNA), che non fa affidamento tanto su rapporti interni, ma piuttosto su sofisticati sondaggi statistici che si basano sulla spesa per consumi e sugli investimenti. D’altronde, uno dei motivi per cui il modello sovietico è stato criticato è la difficoltà, attraverso il suo utilizzo, di capire la distribuzione del reddito, dei consumi e del capitale.
La verità tuttavia è che la forma mentis del passato continua a sopravvivere in Cina. E che l’eredità di quel sistema è ancora viva nel metodo di misurazione del Pil cinese.
Già nel 1998, in base alla teoria Wu-Maddison, nel pieno della crisi in Asia, la produzione industriale della Cina si contrasse dello 0,1%. Ma per Pechino, lo stesso dato era cresciuto dello 0,3%.
Le conclusioni a cui arriva Macquarie nel mettere a confronto i numeri del Conference Board con quelli delle autorità cinesi sono le seguenti:
- Se il Conference Board ha ragione, allora i settori dell’economia cinese sono più volatili rispetto a quanto pensiamo.
- Se i numeri del Conference Board sono giusti, l’interrogativo non è se la Cina sperimenterà o meno un “hard landing. La domanda è se l’hard landing non si sia già manifestato”.
- E se il Conference Board ha ragione, allora le misure di stimolo e gli investimenti non avranno grandi effetti su un’economia che versa in una tale crisi.
Difficile prevedere come poi i mercati potrebbero reagire se si rendessero conto che l’economia cinese non solo ha rallentato il passo, ma non hai mai neanche riportato quel trend stellare di cui si è parlato per anni.