Una borsa in corsa: Piazza Affari cerca di colmare il divario con gli altri mercati europei, molto più diversificati di quello italiano.
Tra analisti ed esperti molti sono pronti a scommettere sull’imminente ondata di nuovi titoli industriali; altri sono più scettici e ritengono che se pure il numero degli industriali e dei tecnologici quotati aumenterà, alla fine il peso preponderante sul mercato milanese resterà appannaggio dei titoli finanziari.
Su un punto sono tutti d’accordo: Piazza Affari è troppo piccola e offre poco. Deve cambiare. Per certi versi, deve crescere.
“C’è poco da scegliere – dice a Wall Street Italia Cristina Peccati, analista tecnica di Centrosim – in Italia il listino è fatto per lo più dai titoli finanziari, che sono in pratica l’unico fronte difensivo del nostro listino. Che rischia di andare in pezzi ogni volta che il mercato interno e internazionale comincia a vendere i finanziari”.
L’analista lamenta il fatto che a Piazza Affari ci siano “pochissimi titoli energetici, solo una manciata di utility, con Enel penalizzato dal suo ingresso nelle telecomunicazioni; il farmaceutico è quasi inesistente, al pari del comparto alimentare che conta solo sette società, di biotecnologici vediamo appena un’ombra”.
Secondo Borsa SpA, al 31 maggio 2001 tra le società italiane quotate a Piazza Affari, 102 appartenevano al settore industriale con una capitalizzazione di €155,025 miliardi; 40 società al settore dei servizi con una capitalizzazione di €250,394 miliardi; 89 società al settore finanziario, con una capitalizzazione di €286,788 miliardi.
Rispettivamente la capitalizzazione sul totale è pari al 22,4% per il comparto industriale, al 36,2% al comparto dei servizi, al 41,4% al comparto dei finanziari.
Eppure, osserva l’analista di una banca italiana che preferisce non essere citato, “in Italia esistono aziende che sono dei piccoli gioielli e che verosimilmente riscuoterebbero un enorme successo se si quotassero in borsa. Ma non lo fanno”. L’analista fa l’esempio di Barilla, di Ferrero, “o della stessa Iveco, se il gruppo Fiat accettasse di scorporarla e di quotarla”.
Marco Verlanda, condirettore generale di Banca Aletti, di cui è anche responsabile per l’investment banking, concorda con il fatto che il listino italiano non è rappresentativo del tessuto industriale ed economico nazionale: “questo – spiega a Wall Street Italia – è frutto innanzi tutto di una certa cultura, legata alla natura del nostro sistema finanziario: basti pensare che fino al 1991 le banche non potevano negoziare direttamente titoli in borsa, poi sono state create le Sim ed è solo dal 1996 che possono negoziare direttamente”.
Inoltre, aggiunge Verlanda, c’è la questione dimensionale: in borsa manca, per così dire, il ceto medio delle imprese. Quelle grosse sono quasi tutte quotate, ma le altre? In questo senso la creazione del segmento STAR SULL’ARGOMENTO VEDI ANCHE:
Piazza Affari tiene a battesimo Star è un’offerta coerente alla domanda delle aziende che da qualche anno premono per entrare. Lo scorso anno in particolare ci fu un vero e proprio boom, avevamo la coda dietro la porta; ora, con i mercati in ribasso, c’è sicuramente un rallentamento, ma non appena i corsi azionari si riprenderanno vedremo un flusso enorme di new entry, specialmente nel settore della New Economy.
L’operatore di una banca italiana che assiste le aziende nel percorso verso quotazione osserva che “tante aziende potrebbero quotarsi, ma in Italia è ancora molto diffusa la cultura che segue questo ragionamento: se non ho problemi finanziari, né di successione, perché devo andare in borsa? Questo accade più da noi che all’estero. Penso ai paesi anglosassoni soprattutto, dove lo sbarco sul listino è visto quasi come un marchio di qualità”.
Se il sistema italiano è così farraginoso, le origini sono lontane, ma anche in tempi più recenti un insieme di cause ha contribuito a strangolare la nostra borsa: non hanno certo aiutato la statalizzazione dell’economia durante il ventennio fascista, né, dopo la guerra, la concentrazione del capitalismo italiano in una manciata di famiglie che hanno fatto largo uso di obbligazioni convertibili e di titoli al risparmio.
Negli ultimi cinque anni, grazie anche al processo di privatizzazioni lanciato dal governo, il mercato azionario italiano ha trovato un po’ più di respiro. Una forte spinta è venuta anche da tutti coloro che avevano investito solo in Bot e altri titoli di Stato. “Questi investitori – dice l’operatore – sulla scia dell’adeguamento dell’economia ai parametri di Maastricht e del conseguente abbassamento dei tassi di remunerazione, hanno cominciato a guardare alla borsa per i propri investimenti”.
Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Giuliana Porta, analista responsabile dell’ufficio studi di Dresdner Kleinwort Kasserstein, è convinta che difficilmente il peso dei nuovi titoli industriali che ci si aspetta potrà mutare significativamente la composizione del listino di Piazza Affari. “Il problema – dice – è strutturale in quanto in Italia la maggior parte delle aziende sono di taglia medio-piccola; magari con il segmento STAR potranno avere maggiore visibilità, ma dubito che con la loro bassa capitalizzazione potranno cambiare radicalmente i connotati a Piazza Affari”.
Verlanda ammette che “ci vorrà del tempo prima che il peso delle medie aziende riescano ad equilibrare quello del comparto finanziario, ma è indubbio che in futuro ci sarà un maggior utilizzo della borsa da parte delle imprese”.
Chi troveremo tra i nuovi arrivi. “Mi apetto poco sul fronte delle banche, delle popolari e delle assicurazioni – dice l’operatore della banca italiana – su quel fronte si tratterà praticamente di routine; al contrario, penso che molto arriverà dagli industriali, ancora sottorappresentati sul listino italiano. Fino a due-tre anni fa, per esempio, chi avrebbe immaginato la corsa di Prada, per esempio, verso Piazza Affari?”.
Tra le possibili new entry, appunto, ci sono anche aziende che operano nel campo della moda destinato, per alcune sue caratteristiche, ad aprirsi al mercato.
Ma ci sono anche altri comparti. Gli operatori pensano alla meccanica fine, alle piastrelle, di cui Granitifiandre, da poco in borsa, è una società rappresentativa, ma anche alla pelletteria, al packaging, all’elettronica e al software.
L’analista di una Sim italiana vede “tanta New Economy, qualche squadra di calcio, la Ferrari.
Verlanda aggiunge le macchine utensili, “che è un settore molto forte in Italia con un export importante”, e poi società che operano nel settore dei trasporti e dell’immagazzinaggio, “in tutte quelle strutture, cioè, che faranno sempre più da supporto alla New Economy in generale e al commercio elettronico in particolare”.